Il Papa e l'università. Dal "discorso proibito" del 2008 alla contestazione di oggi
Quali sono le cause profonde del dissesto universitario? Benedetto XVI avrebbe voluto parlarne il 17 gennaio 2008 in uno dei grandi discorsi del suo pontificato, che però non è stato mai pronunciato. Rilleggiamolo
Nelle ultime settimane si è tornato a parlare di università. Abbiamo visto studenti che bloccavano il traffico e politici che salivano sui tetti per protestare contro la riforma proposta dall’attuale governo. Se si interrogavano gli studenti, e tanto più i politici, sulle ragioni della protesta, le risposte erano desolanti. Quasi nessuno ha letto il testo della riforma, a mio avviso un primo piccolo passo per rimediare ad alcune delle croniche inefficienze dei nostri atenei. Nella misura in cui non era pura strumentalizzazione politica o voglia tipicamente studentesca di un chiasso all’insegna del «sempre meglio che andare a lezione», la protesta esprimeva semplicemente disagio per un’università dove, nonostante la presenza di tanti docenti d’eccellenza, si vive male e si studia peggio.
Ma quali sono le cause profonde del dissesto universitario? Come sappiamo, avrebbe voluto parlarne Benedetto XVI in uno dei grandi discorsi del suo pontificato, che però non è stato mai pronunciato. L’opposizione di una minoranza di docenti e studenti facinorosi, e la colpevole inerzia del governo di centro-sinistra allora guidato dall’on. Romano Prodi, impedì al Papa di parlare all’Università «La Sapienza» di Roma, dove avrebbe dovuto recarsi il 17 gennaio 2008. Un gesto violento, assurdo, senza precedenti. E anche stupido: la pubblicazione del discorso che il Papa avrebbe voluto pronunciare ha mostrato quanto il timore che Benedetto XVI turbasse o indottrinasse gli studenti di sinistra fosse infondato. Il discorso, semplicemente, volava troppo alto. Il medio «compagno di base» – studente e francamente, in molti casi, anche docente – non ne avrebbe capito quasi nulla. Si è persa, però, l’occasione di ascoltare un’altissima lezione sulla ragione e sul ruolo dell’università. Ma, dal momento che il Papa ha comunque diffuso il testo cui ha confidato di avere lavorato per parecchi giorni, il lettore attento al Magistero non è privato del suo insegnamento. Ascoltandolo, capiremo dove stanno i veri problemi dei nostri atenei.
1. Il Papa parla in nome della ragione
L’università – tanto più a Roma – nasce cattolica, ma è diventata laica. Che cosa ci viene a fare il Papa, si chiede Benedetto XVI, quasi anticipando le obiezioni dei facinorosi? Il Papa, risponde, annuncia certo la fede. Ma in tempi di crisi della ragione «è diventato sempre di più anche una voce della ragione etica dell’umanità» (Benedetto XVI, discorso preparato per l a visita all’Università «La Sapienza di Roma» del 17.1.2008, da cui traggo tutte le successive citazioni). Benedetto XVI conosce «l’obiezione, secondo cui il Papa, di fatto, non parlerebbe veramente in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi dalla fede e per questo non potrebbe pretendere una loro validità per quanti non condividono questa fede». Tradotto in un gergo più comprensibile anche ai «compagni di base»: tu, Papa, dici di venire da noi che non siamo credenti a proporre una soluzione dei problemi dell’università in nome della ragione e non della fede, ma ci inganni perché spacci per argomenti di ragione quelli che in realtà sono argomenti di fede travestiti.
Dietro l’obiezione maliziosa emerge, nota Benedetto XVI, «la questione assolutamente fondamentale: Che cosa è la ragione? Come può un’affermazione – soprattutto una norma morale – dimostrarsi “ragionevole”?». L’intero discorso costituisce una risposta, o meglio un insieme di risposte, a questa domanda. Il Papa inizia con l’argomento che dovrebbe essere più facilmente comprensibile: quello ex experientia, che nasce dalla storia. Benedetto XVI cita un filosofo della politica americano, non cattolico e lontano pure dalla dottrina sociale della Chiesa – con cui ho qualche familiarità avendogli dedicato la mia tesi e la prima opera che ne ha parlato in Italia –, ricordando «che John Rawls [1922-2002], pur negando a dottrine religiose comprensive il carattere della ragione “pubblica”, vede tuttavia nella loro ragione “non pubblica” almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una razionalità secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono. Egli vede un criterio di questa ragionevolezza fra l’altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina».
Rawls sostiene che, quando si presenta ad argomentare sulla scena pubblica in nome non della fede ma della ragione, la Chiesa non può vantare la stessa autorità che i fedeli le riconoscono quando parla di questioni strettamente religiose. Tuttavia non si può neppure ritenere che la Chiesa sia per definizione meno autorevole degli altri. Ci sono anzi secondo Rawls buone ragioni per ritenerla più autorevole dell’ultimo demagogo che si presenta in piazza, perché la Chiesa parla sulla base di secoli di esperienza. Questa concessione di Rawls dal punto di vista della Chiesa non è forse moltissimo, ma è almeno qualcosa. Nell’affermazione di Rawls, afferma Benedetto XVI, «mi sembra importante il riconoscimento che l’esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato».
La storia, contrariamente a quanto oggi molti pensano, è importante: «di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale – la sapienza delle grandi tradizioni religiose – è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee». «Il Papa parla come rappresentante di una comunità credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità: in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica». I guai dell’università cominciano quando si mette a tacere la voce della Chiesa.
2. L’università nasce dal cristianesimo
«Ma ora ci si deve chiedere: E che cosa è l’università? Qual è il suo compito?». Il Papa pensa che «la vera, intima origine dell’università stia nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo». L’università nasce dal superamento di una visione del mondo superstiziosa e magica e dall’affermarsi di una religione libera da incrostazioni superstiziose, che entra in dialogo con la ragione. Questo passaggio – com’era stato ricordato nel discorso di Ratisbona del 2006 – ha una duplice radice, greca e cristiana. Il Papa rievoca anzitutto un dialogo giovanile di Platone (427-347 a.C.), l’Eutifrone. Qui, afferma, «si può vedere l’interrogarsi di Socrate [469-399 a.C.] come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale». Di fronte a Socrate, Eutifrone «difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: “Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti… Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?” (6 b – c)».
La posizione di Socrate, nota il Papa, è «apparentemente poco devota» – e infatti sarà condannato a morte, accusato di non credere negli dei ateniesi –: ma in realtà Socrate è più religioso di Eutifrone, perché la sua critica degli dei deriva «da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino». In questa posizione di Socrate «i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino»: anch’essi criticavano gli dei pagani in nome dell’unico Dio davvero divino. I primi cristiani hanno concepito la loro fede «come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice».
Superando la «religione mitologica» la fede incontra la ragione. I primi cristiani «non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università».
La verità dei cristiani aveva peraltro qualcosa di più rispetto alla verità dei greci. Sant’Agostino, ricorda Benedetto XVI, «ha affermato una reciprocità tra “scientia” e “tristitia”: il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto – chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste». Come sfuggire alla tristitia? I primi cristiani lo sapevano. Per loro, «verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene». È la convergenza fra il vero e il bene che supera la tristezza del sapere. «La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa». L’università che ha espulso Dio non solo non funziona, ma è un luogo triste.
3. La lezione delle università medievali
Dire però che il vero e il bene devono convergere imposta tutto un programma di studi e di ricerche, nel corso del quale s’incontrano e si devono risolvere problemi complessi. «Nella teologia medievale c’è stata una disputa approfondita sul rapporto tra teoria e prassi, sulla giusta relazione tra conoscere ed agire», e «di fatto l’università medievale con le sue quattro Facoltà presenta questa correlazione». Lo studio delle quattro facoltà dell’università medievale – medicina, diritto, filosofia e teologia – presenta elementi di notevole interesse anche per noi oggi. Cominciando «con la Facoltà che, secondo la comprensione di allora, era la quarta, quella di medicina», si deve rilevare che la trasformazione della medicina da mera pratica a scienza di rango universitario fu una grande conquista, e non avvenne senza difficoltà. «Il suo inserimento nel cosmo dell’universitas significava chiaramente che era collocata nell’ambito della razionalità, che l’arte del guarire stava sotto la guida della ragione e veniva sottratta all’ambito della magia. Guarire è un compito che richiede sempre più della semplice ragione, ma proprio per questo ha bisogno della connessione tra sapere e potere, ha bisogno di appartenere alla sfera della ratio».
A ben vedere, la stessa «questione della relazione tra prassi e teoria, tra conoscenza ed agire» si presenta «nella Facoltà di giurisprudenza: «il diritto è il presupposto della libertà, non il suo antagonista». I medievali si pongono lo stesso problema che continua a interrogarci oggi: «come s’individuano i criteri di giustizia che rendono possibile una libertà vissuta insieme e servono all’essere buono dell’uomo?». Con «un salto nel presente», Benedetto XVI osserva che il problema non può essere semplicemente risolto affermando che i criteri di giustizia emergono dal voto a maggioranza in un ordinamento democratico. Non è così. Un filosofo tedesco non credente con il quale il cardinale Ratzinger ha spesso dialogato, «Jürgen Habermas, esprime, a mio parere, un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimità di una carta costituzionale, quale presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti. Riguardo a questa “forma ragionevole” egli annota che essa non può essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un “processo di argomentazione sensibile alla verità” (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren)».
Anche questa modesta concessione di Habermas non risolve certo tutti i problemi: «è detto bene, ma è cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica». Infatti l’aspirazione alla verità di Habermas s’incontra e si scontra con il ruolo dei partiti politici nelle democrazie moderne. «I rappresentanti di quel pubblico “processo di argomentazione” sono – lo sappiamo – prevalentemente i partiti come responsabili della formazione della volontà politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi però sono spesso particolari e non servono veramente all’insieme. La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi». E tuttavia secondo Benedetto XVI la concessione di Habermas, con i tempi che corrono, non va neppure lasciata semplicemente cadere. «Io trovo significativo il fatto che Habermas parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico».
«Ma allora diventa inevitabile la domanda di Pilato: Che cos’è la verità? E come la si riconosce? Se per questo si rimanda alla “ragione pubblica”, come fa Rawls, segue necessariamente ancora la domanda: Che cosa è ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera?». A queste domande – formulate in modo diverso da oggi – rispondeva l’università medievale, ponendo accanto alle facoltà di medicina e di diritto quelle di filosofia e di teologia, «cui era affidata la ricerca sull’essere uomo nella sua totalità e con ciò il compito di tener desta la sensibilità per la verità». Ma ancora: come si fa a «tener desta» questa sensibilità, in ogni tempo e tanto più oggi, quando la nozione di verità rischia di essere travolta dal relativismo?
«Teologia e filosofia – nota Benedetto XVI – formano in ciò una peculiare coppia di gemelli, nella quale nessuna delle due può essere distaccata totalmente dall’altra e, tuttavia, ciascuna deve conservare il proprio compito e la propria identità. È merito storico di san Tommaso d’Aquino [1225-1274] – di fronte alla differente risposta dei Padri a causa del loro contesto storico – di aver messo in luce l’autonomia della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della ragione che s’interroga in base alle sue forze». Qui il processo storico è complesso, e il Papa ne nota tre passaggi. Certamente Platone aveva posto la questione della verità, ma i primi cristiani incontrano «filosofie neoplatoniche, in cui religione e filosofia erano inseparabilmente intrecciate». La risposta dei primi Padri della Chiesa, dopo qualche incertezza, è presentare «la fede cristiana come la vera filosofia, sottolineando anche che questa fede corrisponde alle esigenze della ragione in ricerca della verità; che la fede è il “sì” alla verità, rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine». Questo secondo passaggio rappresenta già un progresso rispetto al neoplatonismo, ma non distingue ancora in modo rigoroso fede e ragione, e quindi teologia e filosofia.
Si può dire che i primi Padri argomentino tenendo sempre presente l’avversario pagano rappresentato dalle «religioni mitiche». «Ma poi, al momento della nascita dell’università, in Occidente non esistevano più quelle religioni, ma solo il cristianesimo, e così bisognava sottolineare in modo nuovo la responsabilità propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede». Ecco dunque il terzo passaggio, che nasce in condizioni storiche e culturali nuove, dove il confronto non è più con i pagani ma con il pensiero di ebrei e di arabi che si sono accostati alla filosofia greca in modo diverso dai cristiani. Quando sulla scena della cultura europea fa irruzione san Tommaso, «per la prima volta gli scritti filosofici di Aristotele [384-322 a.C.] erano accessibili nella loro integralità; erano presenti le filosofie ebraiche ed arabe, come specifiche appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca. Così il cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza». La risposta di san Tommaso e della Chiesa consiste nel sottolineare precisamente l’autonomia della ragione, che pure non è separata dalla fede.
«La Facoltà di filosofia che, come cosiddetta “Facoltà degli artisti”, fino a quel momento era stata solo propedeutica alla teologia, divenne ora una Facoltà vera e propria, un partner autonomo della teologia e della fede in questa riflessa». Non si trattava di semplice politica universitaria, ma di un passaggio decisivo per la storia dell’Occidente. La Chiesa definiva il rapporto fra filosofia e teologia, quindi anche fra ragione e fede, fra politica e religione, con conseguenze immense che sarebbero durate per secoli e che oggi consentirebbero di evitare sia il laicismo – l’assorbimento della fede nella ragione – sia il fondamentalismo, l’assorbimento della ragione nella fede.
«Io direi – afferma Benedetto XVI – che l’idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia [del 451] per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro “senza confusione e senza separazione”. “Senza confusione” vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identità». Ma «insieme al “senza confusione” vige anche il “senza separazione”: la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione del cammino». È vero che «molto di ciò che dicono la teologia e la fede può essere fatto proprio soltanto all’interno della fede e quindi non può presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile». Ma nello stesso tempo «il messaggio della fede cristiana non è mai soltanto una “comprehensive religious doctrine” nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi».
Qualcuno potrebbe dire: sono cose da Medioevo, mentre oggi la ragione se la cava benissimo senza la fede. È precisamente il contrario. È nel secolo XX che i progressi, pure innegabili, delle scienze naturali e delle scienze umane sono stati accompagnati da orrori senza precedenti causati da ideologie di distruzione e di morte. «Il pericolo della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama della storia attuale!». E la causa degli errori e degli orrori sta appunto nella negazione relativista della verità: «il pericolo del mondo occidentale – per parlare solo di questo – è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità».
Benedetto XVI riprende qui un tema del discorso di Ratisbona del 2006 e dell’enciclica Spe salvi del 2007. Delle due l’una: o la ragione è misurata dalla verità o diventa mera ragione strumentale, misurata dall’utilità e dall’interesse. Relativismo «significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Detto dal punto di vista della struttura dell’università: esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande. Se però la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e – preoccupata della sua laicità – si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma».
Il Papa non veniva alla Sapienza per «imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà», ma per «mantenere desta la sensibilità per la verità». Che questo invito gentile sia stato rifiutato conferma che il rifiuto della verità e della ragione è diventato istituzionale e organizzato, nelle università come tra i politici che invano si affaticano a risolvere i problemi degli atenei: il «rischio della caduta nella disumanità» non solo non è scongiurato, ma è più che mai presente.