Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Lisbona

Il "melting-Pope" che alle autorità non parla di Dio

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Incontrando governanti e diplomatici Francesco esalta il globalismo e invita i giovani a coltivare i «desideri dell’unità, della pace e della fraternità»: una proposta poco differente da quelle mondane.
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Ecclesia 04_08_2023 English

Uno dei discorsi più importanti di Francesco alla Giornata Mondiale della Gioventù di Lisbona è certamente quello tenuto mercoledì 2 agosto davanti alle autorità civili e al corpo diplomatico. Per la natura dei destinatari si è trattato di un discorso rivolto al mondo, non interno alla Chiesa, e le sue parole sui temi sociali politici ed economici hanno dato il polso di come egli intenda la proposta della Chiesa nel campo della sua Dottrina sociale.

Possiamo dire che i due punti caratteristici del discorso siano il “mondialismo” accentuato da un lato e il silenzio su Gesù Cristo dall’altro. Come fa sempre, anche questa volta Francesco ha spinto l’acceleratore verso una governance mondiale frutto di una imprecisata fraternità e alimentata da una confusa speranza che sappia gestire tutti i fenomeni di oggi. Quanto a Cristo, Francesco ha condotto tutto il suo discorso senza mai accennarne, fino alla conclusione, quando, parlando della speranza che deve animare la comunità planetaria in questo momento, ha detto: quella [la speranza] «che noi cristiani impariamo dal Signore Gesù Cristo», il che significa che altri la possono imparare egualmente bene altrove: Cristo come uno dei tanti maestri di speranza.

Si può pensare che davanti a politici e ambasciatori si debba fare un discorso laico e profano e che, quindi, Francesco abbia fatto bene a volare basso, senza accenni alla fede e alla religione, che abbia fatto bene a limitarsi alla natura senza tirare in ballo la soprannatura. Forse dal punto di vista degli ascoltatori questo è vero, ma dal punto di vista del papa non può essere vero. Infatti, nulla si svolge sul piano naturale che non rifletta l’influsso su di esso di quello soprannaturale. La rivelazione e la grazia investono direttamente il piano naturale, non per sostituirsi alle responsabilità proprie di quel livello, ma per dire loro che il fine ultimo è un altro.

L’abbandono del piano naturale a se stesso, che si configura anche quando se ne parla al suo proprio livello e basta, si chiama naturalismo. Esso presuppone che le ingiustizie e le difficoltà della vita sociale possano trovare capacità e possibilità risolutive dentro esse stesse, senza nessun sostegno e aiuto divino. Non è una novità che Francesco conduca i suoi discorsi a sfondo sociale senza fare riferimento a Cristo. Però è difficile, e forse impossibile, abituarvisi.

La marginalizzazione di Cristo in questo discorso va insieme, come si è detto, alla decisa spinta globalista. In questo momento molti centri di potere sono in azione per una trasformazione sistemica della organizzazione della vita sul pianeta. Se in molti passaggi del suo discorso, Francesco si dice preoccupato per come questi attori globali minaccino la pace, producano povertà, costruiscono sottomissione, in molti altri e nel tono generale del discorso, egli spinge favorevolmente per l’abbattimento di ogni differenza, per una società globale post-identitaria, meticciata, multiculturale e multireligiosa.

Non esprime alcuna valutazione critica per l’omologazione dei caratteri nazionali e culturali nel nuovo melting-pot globale e fa proprie le cause tanto care ai sostenitori del Grande Reset, come la cosiddetta emergenza climatica e una gestione completamente aperta delle migrazioni. In altre parole, abbraccia in gran parte proprio quella ideologia globalista per la quale Cristo deve essere tutt'alpiù “uno dei tanti”. È molto difficile, leggendo questo discorso di Francesco, distinguere le posizioni della Chiesa cattolica da quelle di WEF di Davos o della Open Siciety Foundations.

Lisbona e il Portogallo non vengono esaltati per aver portato il cristianesimo nel mondo, ma per essere una società «multietnica e muticulturale», per respirare l’aria dell’oceano, «che richiama all’importanza dell’insieme, a pensare i confini come zone di contatto, non come frontiere che separano». Lisbona viene ricordata per aver ospitato i lavori della revisione del Trattato costitutivo dell’Unione Europea, identificata con l’Europa, così che Bruxelles avrebbe oggi il ruolo di portare avanti il compito dell’Europa, da non intendersi, certo, come il rilancio della Magna Europa cristiana, ma come –  «avviare percorsi di dialogo, percorsi di inclusione, sviluppando una diplomazia di pace che spenga i conflitti e allenti le tensioni».

L’Europa (o l’Unione Europea?) di Francesco non è più l’Europa cristiana, ma l’Europa che ritrova «il suo animo giovane», sogna «la grandezza dell’insieme», va oltre «i bisogni dell’immediato», include «popoli e persone», non ricorre a «teorie e colonizzazioni ideologiche». Tutte cose per le quali Cristo serve a poco. Ai giovani Francesco augura di coltivare «desideri dell’unità, della pace e della fraternità» di «realizzare i loro sogni», di «costruire insieme», di «creare novità», di «prendere il largo e navigare insieme verso il futuro». Indicazioni prive di contenuto, che i giovani di Lisbona potrebbero applicare, senza cogliere le differenze, alle proposte del neo-globalismo postumano e irreligioso.