Il maestro nella letteratura latina: da padre a figura insopportabile
L'insegnante è chiamato a trasmettere sapere e disciplina con animo paterno. È l'ideale tracciato già nel I secolo da Quintiliano. Se il docente se ne discosta, gli studenti non sono scoraggiati dalla fatica in sé, quanto dalla difficoltà di comprenderne il senso, al punto che Marziale propone di pagarlo senza farlo lavorare, affinché non faccia danni.
Quando leggiamo l’Institutio oratoria, scritta da Quintiliano quasi duemila anni fa, comprendiamo con chiarezza che il cuore dell’uomo e il segreto della pedagogia non cambiano nel tempo. Potranno cambiare strumenti, mezzi, opportunità che le differenti epoche mettono a disposizione del maestro, ma la natura del rapporto tra maestro e alunno rimane invariata nel tempo.
Il nostro viaggio nel mestiere del maestro nella letteratura comincia proprio da Quintiliano (35 d. C. - 96 d. C.), considerato il primo insegnante di una scuola pubblica di retorica. Già secoli prima erano nate le prime scuole elementari a pagamento (in latino ludus), proprio negli anni in cui sorgeva la letteratura latina con Livio Andronico e Nevio. Nei primi anni di vita l’educazione era affidata alla madre, accompagnata talvolta da una nutrice (di solito di origine greca). Dai sette anni in poi il padre impartiva ai figli le prime nozioni per la scrittura, la lettura e il far di conto, oltre a quegli insegnamenti morali legati alla tradizione romana noti anche come mos maiorum, ovvero la tradizione degli antenati.
Dal I secolo a. C. si era ormai delineato un sistema scolastico che prevedeva tre figure di insegnanti (stipendiate sempre dalle famiglie) in base all’età degli allievi: il maestro elementare per i piccoli, poi il grammatico e, infine, il retore. Cambiavano naturalmente la specializzazione degli insegnanti e la loro retribuzione. Fu Quintiliano, invece, ad aprire la prima cattedra pubblica di eloquenza nel 78 d. C. su richiesta dell’imperatore Vespasiano. Può essere considerata la prima scuola statale finalizzata all’obiettivo di formare il cittadino romano e il funzionario imperiale, ligio alle leggi, allo Stato e all’imperatore. Per l’incarico il retore ricevette la cospicua somma di centomila sesterzi. Quando terminò la responsabilità, fu incaricato dell’educazione dei figli dell’imperatore. La sua grande esperienza gli permise di lasciarci in eredità l’Institutio oratoria, un’opera immensa, scritta negli ultimi anni di vita, compendio del sapere precedente sulla pedagogia e sulla retorica e della sua quotidianità trascorsa nella scuola.
Per Quintiliano l’insegnante deve essere come un padre, convinto di prendere il posto di quanti gli affidano i figli. Quando s’instaura un rapporto affettivo, più facilmente vengono trasmesse le discipline, perché l’affettività permette la trasmissione del sapere, l’impeto all’imitazione e il desiderio di non deludere. Il maestro parli spesso di ciò che è onesto e di ciò che è bene: infatti, quanto più spesso ammonirà, tanto più raramente punirà. Si adiri il meno possibile, ma non finga di non vedere i difetti da correggere, sia semplice nelle spiegazioni, resistente alla fatica, assiduo, ma non eccessivo. Risponda volentieri a chi gli fa domande, di sua iniziativa interroghi chi non gliene pone. La sua serietà non diventi cupa e la sua affabilità non sia sguaiata, affinché, a causa della prima, non gli venga antipatia e, a causa della seconda, scarso rispetto. Quando corregge gli errori non si mostri aspro e offenda il meno possibile, perché il fatto che alcuni biasimino i ragazzi quasi come se provassero astio verso di loro ne allontana molti dal proposito di studiare. Il maestro dovrà essere capace di mantenere la disciplina, requisito fondamentale e imprescindibile, punto di partenza perché possa instaurarsi un rapporto educativo.
La disciplina non è una formalità, ma è una forma sostanziale, è il riconoscimento che vi è di fronte ai ragazzi una presenza autorevole che può comunicare qualcosa d’importante. Il silenzio è, quindi, il riconoscimento che si è in una posizione di ricezione e di ascolto, non passivo. Il maestro non si adiri, ma rimanga sempre moderato nei toni. Permetta sempre al ragazzo di comprendere con chiarezza il percorso che il docente si aspetta da lui. Una delle ragioni della sfiducia che s’ingenera negli studenti non è tanto dovuta alla fatica nello studio, come si crede, ma al fatto che il ragazzo si trova spesso a faticare senza comprenderne il senso o senza vedere premiati i propri sforzi. Naturalmente queste sono le indicazioni ideali che Quintiliano offre al numero degli insegnanti, molti dei quali, allora come oggi, si discostano considerevolmente dal ritratto ideale delineato.
Ne offre conferma Marziale quando dipinge l’immagine di un maestro insopportabile (Epigrammata IX, 68), non gradito ai bambini e alle bambine, abituato ad alzare il tono della voce fin dall’alba e incline a dar sferzate per punizione. A detta di Marziale le urla del maestro proseguono addirittura a sera: «Noi vicini chiediamo - non per tutta la notte - di dormire:/ infatti stare svegli è cosa tollerabile, ma starlo a lungo è cosa insopportabile». L’epigramma si conclude con un fulmen in clausula, ovvero una battuta che non ci aspetteremmo: «Lascia andare i tuoi allievi. Vuoi, o chiacchierone, ricevere/ per tacere quanto ricevi per gridare?». La proposta del poeta è che si paghi il maestro per non lavorare più, in modo da non arrecare danni ai fanciulli e tantomeno agli adulti che sentono le urla.