LA LEZIONE DEL PAPA
Il grande ritorno di Cristo Re
Il tema della regalità di Gesù è al centro delle recenti omelie di Benedetto XVI.
Attualità
27_12_2010
Nel messaggio del 25 dicembre il Papa è tornato sull’essenziale dell’incarnazione: il Verbo si fece carne. «Come è possibile? – si è chiesto Benedetto XVI – . Il Verbo e la carne sono realtà tra loro opposte». Ma tutto è possibile all’amore di Dio. «Quando nel grembo di Maria, per la volontà del Padre e l’azione dello Spirito Santo, si formò Gesù, Figlio di Dio fatto uomo, il creato raggiunse il suo vertice. Il principio ordinatore dell’universo, il Logos, incominciava ad esistere nel mondo, in un tempo e in uno spazio».
Il fatto che il Verbo a Natale diventi carne, che il principio ordinatore di tutto l’universo entri nel mondo chiama il mondo a essere ordinato anche nella sua dimensione civile e politica. Natale «è luce anche per i popoli, per il cammino collettivo dell’umanità. L’“Emmanuele”, Dio-con-noi, è venuto come Re di giustizia e di pace. Il suo Regno – lo sappiamo – non è di questo mondo, eppure è più importante di tutti i regni di questo mondo. È come il lievito dell’umanità: se mancasse, verrebbe meno la forza che manda avanti il vero sviluppo». Non è, la regalità di Gesù Cristo, «di» questo mondo, nel senso che non trova in questo mondo la sua origine e il suo fondamento; ma si estende «su» questo mondo, perché garantisce quel vero sviluppo che dev’essere non solo economico e sociale ma anche morale. di cui il Papa ha parlato nell’enciclica Caritas in veritate.
Nella notte di Natale, il 24 dicembre, il Papa ha ricordato che la Chiesa inizia la liturgia della Notte Santa con una parola tratta dal Salmo secondo: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato». Il fedele può immaginare che queste parole abbiano un senso semplicemente spirituale, e si riferiscano insieme alla divina maternità di Maria e alla generazione del Figlio nella Trinità. È certamente così, ma non si tratta dell’unico significato. Infatti, anche se molti lo hanno dimenticato, il Papa ci ricorda che la Chiesa «sa che questa parola originariamente apparteneva al rituale dell’incoronazione dei re d’Israele. Il re, che di per sé è un essere umano come gli altri uomini, diventa “figlio di Dio” mediante la chiamata e l’insediamento nel suo ufficio: è una specie di adozione da parte di Dio, un atto di decisione, mediante il quale Egli dona a quell’uomo una nuova esistenza, lo attrae nel suo proprio essere».
Il collegamento fra Natale e regalità emerge, afferma il Papa, «in modo ancora più chiaro» dalla lettura della Messa di mezzanotte tratta dal profeta Isaia. Qui Dio dà al suo popolo un re «in una situazione di travaglio e di minaccia per Israele: “Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il potere” (9,5)». La nascita è metafora della salita del re al trono. «L’insediamento nell’ufficio del re – spiega Benedetto XVI – è come una nuova nascita. Proprio come nuovo nato dalla decisione personale di Dio, come bambino proveniente da Dio, il re costituisce una speranza. Sulle sue spalle poggia il futuro. Egli è il detentore della promessa di pace».
Quello che è vero per analogia per le monarchie umane e per i re d’Israele, diventa la verità per eccellenza quando a Betlemme nasce il re dei re. «Nella notte di Betlemme – prosegue il Papa nell’omelia della mezzanotte – questa parola profetica è diventata realtà in un modo che al tempo di Isaia sarebbe stato ancora inimmaginabile». Il Bambino Gesù è infatti «Colui sulle cui spalle è il potere. In Lui appare la nuova regalità che Dio istituisce nel mondo».
I re dell’Antico Testamento sono solo prefigurazioni della vera regalità, insieme spirituale e sociale, di Gesù Cristo. «Le parole del rituale dell’incoronazione in Israele, in verità, erano sempre soltanto rituali di speranza, che prevedevano da lontano un futuro che sarebbe stato donato da Dio. Nessuno dei re salutati in questo modo corrispondeva alla sublimità di tali parole. In loro, tutte le parole sulla figliolanza di Dio, sull’insediamento nell’eredità delle genti, sul dominio delle terre lontane (Sal 2,8) restavano solo rimando a un avvenire – quasi cartelli segnaletici della speranza, indicazioni che conducevano verso un futuro che in quel momento era ancora inconcepibile». Con Gesù invece «l’infinita distanza tra Dio e l’uomo è superata. […] Il suo regno si estende veramente fino ai confini della terra».
La regalità sociale di Gesù Cristo è già stabilita di diritto nella notte di Betlemme. Ma la sua realizzazione di fatto è affidata agli uomini. Infatti, «è anche vero che “il bastone dell’aguzzino” non è stato spezzato. Anche oggi marciano rimbombanti i calzari dei soldati e sempre ancora e sempre di nuovo c’è il “mantello intriso di sangue” (Is 9,3s)». A noi – e specialmente ai laici – spetta dunque uscire dalla notte di Natale con una preghiera che il Papa formula in termini molto forti: «Signore, realizza totalmente la tua promessa. Spezza i bastoni degli aguzzini. Brucia i calzari rimbombanti. Fa che finisca il tempo dei mantelli intrisi di sangue».
Gesù è chiamato «il Primogenito», ma non nel senso che avrà dei fratelli carnali. Spiega il Papa: «Paolo, nelle Lettere ai Colossesi e agli Efesini, ha ampliato ed approfondito l’idea di Gesù come primogenito. […] Sì, ora Egli è tuttavia il primo di una serie di fratelli, il primo, cioè, che inaugura per noi l’essere in comunione con Dio. Egli crea la vera fratellanza – non la fratellanza, deturpata dal peccato, di Caino ed Abele, di Romolo e Remo, ma la fratellanza nuova in cui siamo la famiglia stessa di Dio». Gesù è il primo di molti che opereranno per realizzare il Suo regno.
Infine, il Papa torna su un episodio molto noto: «Il Vangelo di Natale ci racconta, alla fine, che una moltitudine di angeli dell’esercito celeste lodava Dio e diceva: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama.” (Lc 2,14)». La filologia di questa famosissima frase angelica, nota il Papa, è complessa. «La traduzione latina di tale parola, che usiamo nella liturgia e che risale a Girolamo, suona diversamente: “Pace agli uomini di buona volontà”». «Ma quale traduzione è giusta?». Entrambe, risponde Benedetto XVI. «Dobbiamo leggere ambedue i testi insieme; solo così comprendiamo la parola degli angeli in modo giusto. Sarebbe sbagliata un’interpretazione che riconoscesse soltanto l’operare esclusivo di Dio, come se Egli non avesse chiamato l’uomo ad una risposta libera di amore. Sarebbe sbagliata, però, anche un’interpretazione moralizzante, secondo cui l’uomo con la sua buona volontà potrebbe, per così dire, redimere se stesso. Ambedue le cose vanno insieme: grazia e libertà; l’amore di Dio, che ci previene e senza il quale non potremmo amarLo, e la nostra risposta, che Egli attende e per la quale, nella nascita del suo Figlio, addirittura ci prega. L’intreccio di grazia e libertà, l’intreccio di chiamata e risposta non lo possiamo scindere in parti separate l’una dall’altra. Ambedue sono inscindibilmente intessute tra loro. Così questa parola è insieme promessa e chiamata». Dio ha già fondato il Suo regno. Ma vuole che siamo noi a instaurarlo incessantemente sulla Terra, ogni giorno.
«Luca - nota il Papa - non ha detto che gli angeli hanno cantato». Non lo ha detto esplicitamente. Ma dal momento che «il parlare degli angeli è diverso da quello degli uomini» il messaggio angelico «è stato percepito fin dall’inizio come musica proveniente da Dio». In questo riferimento musicale – e si sa quanto il Papa tenga alla musica – c’è pure una lezione. La regalità sociale di Gesù Cristo non può che passare anche attraverso la cultura e la bellezza.