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DRAGHI CADE

Il governo dei migliori fugge prima di crollare sotto le macerie

La realtà si può occultare sotto la coltre dell'"assolutismo illuminato", ma prima o poi le conseguenze di politiche imposte dall'alto cominciano a farsi sentire. E anche il leader tecno-competente Draghi, elevato a “salvatore della patria” si rende conto che il disagio economico e sociale causato dalle sue politiche è prossimo a trasformarsi in una valanga di proteste. E nasce anche nel “salvatore della patria” l'intenzione di fuggire prima di rimanere sotto le macerie dell'edificio da lui stesso minato. Ieri ha pronunciato uno tra i più provocatori discorsi mai ascoltati da un Presidente del Consiglio, chiaramente puntando ad acuire i contrasti piuttosto che a ricucirli.
- CAPOLINEA, ELEZIONI VICINE di Ruben Razzante

Politica 21_07_2022

Qualunque sia l'esito dell'attuale crisi, l'epilogo del governo Draghi, con la presa di distanza contemporanea e simmetrica da parte di Movimento 5 Stelle, Lega e Forza Italia, rappresenta il logico risultato delle contraddizioni insite in un'operazione politica come quella varata nel marzo 2021 da gran parte dei gruppi parlamentari sotto la regia tutt'altro che defilata del Capo dello Stato: un esecutivo definito di unità nazionale, giustificato con un uso insistito della retorica dell'"emergenza" e affidato a una personalità “tecnica” sulla quale sono state riposte enormi aspettative.

I governi “di emergenza” e solidarietà nazionale non sono una novità nella storia dell'Italia repubblicana (quelli della “non sfiducia” presieduti da Andreotti tra il 1976 e il 1979 ne furono il prototipo), e tanto meno lo sono quelli “tecnici”, più volte ricorrenti dagli anni Novanta in poi (Ciampi, Dini, Monti). Ma mai come nel caso della compagine guidata da Mario Draghi gli artefici e sostenitori della maggioranza hanno puntato con altrettanta enfasi sul ruolo decisivo affidato al Presidente del Consiglio in virtù delle sue capacità e del suo prestigio internazionale, e sulla presunta alternativa, da lui incarnata, tra la “salvezza” e un destino catastrofico per il paese. Un'argomentazione usata inizialmente in relazione alla crisi determinata dalla pandemia (il governo, si diceva, nasceva innanzitutto per “portare a termine la campagna vaccinale”) e poi via via ampliatasi ad altre questioni, come le politiche per la “ripartenza” economica post-pandemica, la gestione dei fondi del Pnrr, la guerra russo-ucraina e le sue conseguenze economiche ed energetiche, persino la siccità estiva.

E mai come in questo caso, più ancora di quanto accadde con Mario Monti poco più di un decennio fa, la leadership del Presidente del Consiglio è stata legittimata in direzione “verticale” riferendosi direttamente ai “vincoli esterni” giudicati imprescindibili per l'Italia, come quello  dell'Unione europea ma ora anche, con altrettanta se non più forza, quello atlantico.

Quando si carica di significati così pesanti e ultimativi la vita di un esecutivo - e se le forze politiche che lo appoggiano accettano un tale eccesso, per evitare il rischio di concludere anticipatamente la legislatura perdendo seggi, e/o per scaricare le proprie responsabilità sul “superman” al comando recitando il mantra “There is no alternative” - è inevitabile che la cultura democratica fondata sulla virtù del dibattito, del contraddittorio, del pluralismo si logori molto rapidamente, che divenga sempre più difficile discutere laicamente dei risultati di questa o quella decisione governativa, e che praticamente ogni parere critico nei confronti del “manovratore” investito di una missione quasi sacrale venga considerato, dal sistema dei media e nel dibattito politico corrente, come un delitto di lesa maestà.

È quanto, purtroppo, è accaduto nella gestione della situazione sanitaria, rispetto alla quale politiche disastrose sia dal punto di vista medico che economico e restrizioni assurde delle libertà civili sono state giustificate dal “governo dei migliori”, e dal “migliore” in persona, con imbarazzante arroganza pari solo all'evidente incompetenza, rifiutando sdegnosamente ogni autentico confronto con opzioni alternative, anche all'interno della stessa maggioranza.

Ed è quanto è accaduto anche in occasione della guerra, in relazione alla quale Draghi ha preso decisioni dalle conseguenze pesantissime per la vita dei cittadini (le sanzioni, la rinuncia al gas e ad altre materie prime russe) senza sentire nemmeno il bisogno di argomentarne la necessità o l'efficacia, perché presentate, appunto, come dogmaticamente inevitabili.

Ma poiché la realtà si può occultare fino a un certo punto sotto la coltre dell'“assolutismo illuminato”, prima o poi le conseguenze di politiche imposte dall'alto sulla popolarità dei governanti cominciano a farsi sentire, e, per quanto il dissenso venga censurato o attutito dai media amici, la percezione di un malcontento crescente si fa strada al punto da provocare fisiologicamente nelle forze di maggioranza la tendenza a smarcarsi: in questo caso nei 5 Stelle in crisi strutturale e necessitati a recuperare un'immagine “barricadera” perduta, così come nella Lega e in Forza Italia consapevoli di dissanguarsi a favore di Fratelli d'Italia rimasto all'opposizione.

E anche il leader tecno-competente elevato a “salvatore della patria” si rende conto che il disagio economico e sociale causato dalle sue politiche è prossimo a trasformarsi in una valanga di proteste, conflittualità, tensioni che rovineranno ben presto la sua immagine “sacrale”.

Ecco dunque che, nonostante la resistenza accanita a ogni possibilità di elezioni anticipate da parte di uno tra i più improbabili e irripetibili parlamenti della storia, si innesca tra i contributori più “laterali” della maggioranza il gioco del cerino, la corsa a separare le proprie responsabilità da quelle dell'esecutivo, accusando altri però della sua eventuale caduta. Esattamente come è avvenuto in questi giorni da parte di Conte da un lato, di Salvini e Berlusconi dall'altro.

E nasce anche nel “salvatore della patria” l'intenzione di fuggire prima di rimanere sotto le macerie dell'edificio da lui stesso minato. Intenzione evidente nel comportamento di Draghi, che ha senza dubbio drammatizzato egli per primo la lacerazione con i 5 Stelle imponendo la fiducia anche su un provvedimento marginale come il decreto per l'inceneritore di Roma, e poi ieri nelle sue comunicazioni in Senato ha pronunciato uno tra i più provocatori discorsi mai ascoltati da un Presidente del Consiglio, chiaramente puntando ad acuire i contrasti piuttosto che a ricucirli.

Un tale comportamento da parte dell'ex governatore della Bce non può avere che due sbocchi: o tagliare del tutto i ponti, almeno provvisoriamente, con la politique politicienne nazionale per aspirare a cariche internazionali grazie alle benemerenze maturate presso i suoi referenti gerarchici esteri; o, viceversa, scegliere di “partitizzarsi”, legandosi più strettamente a una componente della sua (ex) maggioranza (in questo caso naturalmente il Pd, che potrebbe usarlo per compensare il crollo del progetto del “campo largo” con i grillini) oppure fondando una sua formazione politica personale, per allearsi con essa in sede elettorale.

Mario Monti, non avendo grandi offerte a livello internazionale, scelse la seconda via. E non si può dire che la cosa gli abbia portato molto bene.