Governo Draghi al capolinea, elezioni più vicine
Dopo il surreale dibattito di ieri, il Senato ha rinnovato la fiducia a Draghi con 95 sì e 38 no, ma con il resto dei senatori che non hanno votato. Oggi anche la Camera dovrebbe confermargli la fiducia, ma sembra comunque scontato che il premier rassegni le dimissioni. L’altissima conflittualità interna ai partiti apre le porte alle urne anticipate.
Passerà alla storia come una delle crisi più bizzarre della storia d’Italia. Un premier che, pur avendo i numeri, si dimette. Un Capo dello Stato che lo rispedisce alle Camere per fargli riottenere la fiducia. Lui la ottiene al Senato e oggi la riotterrà alla Camera, ma nonostante questo si dimetterà nuovamente.
Il Governo Draghi non c’è più. È durato 17 mesi e ha potuto contare su una maggioranza bulgara, che ha reso di fatto inutile il Parlamento, mero organo di ratifica di decisioni prese a Palazzo Chigi.
Il dibattito di ieri al Senato è stato surreale. Mario Draghi ha chiesto di rinnovare il patto di governo, ma senza fare concessioni ai partiti, quindi senza ammorbidire i toni. Sembrava quasi che volesse forzare la mano e andare allo scontro, pur di traslocare. Dopo i proclami di sindaci, governatori, imprenditori, medici e tanti altri affinché restasse premier, non poteva non mostrare un minimo di apertura. L’ha fatto, ma sembra tutt’altro che dispiaciuto dell’attuale situazione. Ora è più libero di tornare ai suoi incarichi internazionali che, fallita la corsa al Quirinale, preferisce di gran lunga piuttosto che farsi cuocere a fuoco lento in altri nove mesi di estenuante campagna elettorale.
Da un certo punto di vista, quindi, Giuseppe Conte gli ha fatto un favore. Draghi non sapeva come andarsene, ma non poteva fare quello che se ne voleva andare. Così può addossare la colpa alle forze politiche “irresponsabili” e ora i suoi fedelissimi, praticamente solo gli attuali ministri, si presenteranno alle elezioni in nome della difesa di un draghismo che però non c’è più perché non c’è più un Governo Draghi. Nessuno più ricorda che Draghi di fatto si era già dimesso mesi fa quando aveva detto che il suo lavoro si era concluso e che poteva essere tranquillamente portato avanti da altri. Quelle sue dichiarazioni vennero giustamente lette come un’autocandidatura al Quirinale. Lì però nessuno di quelli che oggi grida alla tragedia obiettò che forse quel suo lavoro, appena agli inizi, sarebbe dovuto continuare.
Ieri, al Senato, la fiducia è passata con 95 sì e 38 no, perché il resto dei partiti, in particolare quelli di centrodestra, sono usciti dall’aula. Oggi alle 9 il premier si presenterà a Montecitorio, dove i numeri in suo favore potrebbero essere ancora più rassicuranti, considerato che la fronda grillina anti-Conte è ancora più consistente che a Palazzo Madama. Ma nonostante questo, subito dopo, rassegnerà le dimissioni nelle mani del Capo dello Stato e si aprirà formalmente una crisi al buio.
Con le ossa rotte escono quasi tutti i partiti, tranne Fratelli d’Italia. Il Pd ha difeso Draghi fino alla fine e ora sa che dalle probabili urne anticipate uscirà fortemente ridimensionato, anche perché non potrà fare alleanze con i Cinque Stelle. Questi ultimi riacquistano dignità politica e ricompattano la base barricadera, ma sono percorsi da fibrillazioni interne perché molti governisti non si rassegnano all’idea di tornare a casa anzitempo. Dentro Forza Italia è scoppiata la faida tra l’ala filo-leghista di Licia Ronzulli e quella filo-draghiana di Maristella Gelmini. Quest’ultima ieri ha annunciato di aver lasciato il partito ed è assai probabile che gli altri due ministri forzisti, Mara Carfagna e Renato Brunetta, la seguiranno. Ma per andare dove? Soprattutto se si voterà a ottobre, i centristi filo-draghiani non avranno la possibilità né il tempo di costituire un raggruppamento centrista con Renzi, Calenda, Mastella, Brugnaro, Toti, Di Maio. Si tratta di generali senza truppe che non brillano di luce propria. E con questo sistema elettorale, che non ci sarebbe tempo di cambiare in caso di elezioni in autunno, andrebbero incontro all’estinzione.
Il centrodestra unito non avrebbe rivali nella rincorsa alla vittoria alle prossime politiche, ma al momento è tutt’altro che unito. Anche nella Lega serpeggiano malumori per lo strappo di Salvini. I governatori come quello friulano, Massimiliano Fedriga, avrebbero preferito la prosecuzione dell’esperienza Draghi.
Non è ancora detta, quindi, l’ultima parola. Esistono pochissime possibilità che la legislatura arrivi alla fine con un Draghi-bis (senza 5 Stelle e con chi ci sta) o con un governo di transizione che faccia la legge di bilancio in autunno e metta in sicurezza (si fa per dire) i progetti del Pnrr, per poi portare il Paese ai seggi a inizio marzo 2023. L’altissimo livello di conflittualità interno alle forze politiche sembra aprire la strada a un rapido ritorno alle urne. D’altronde, come ha detto ieri Giorgia Meloni, in questa legislatura il Parlamento è stato praticamente esautorato, prima con Conte, ora con Draghi, che di fatto ieri ha preteso pieni poteri, sostenendo che glielo hanno chiesto gli italiani. «Ma in una democrazia – ha detto la Meloni – la volontà popolare si esprime solo con il voto, non sulle piattaforme grilline o con gli appelli del Pd. Sono le autocrazie che rivendicano di rappresentare il popolo senza bisogno di far votare i cittadini, non le democrazie occidentali. Fratelli d’Italia non intende assecondare questa pericolosa deriva. Decidano gli italiani del proprio futuro, non questo Parlamento delegittimato e impaurito. Elezioni subito».
A meno di colpi di scena, bisognerà prendere atto che le cose stanno andando proprio come aveva previsto la leader di Fratelli d’Italia.