Il "Discorso sullo Stato dell'Unione", questo sconosciuto
La Costituzione dice che ogni tanto il presidente deve riferire alle Camere. potrebbe pure mandare una lettera.
Che cos’è il Discorso sullo Stato dell’Unione che ogni anno, a fine gennaio, tieni incollati gli osservatori al video?
È il discorso che annualmente svolge il presidente degli Stati Uniti d’America in seduta plenaria davanti al Congresso federale a camere unificate. Viene tenuto nell’aula della Camera, in Campidoglio. Il discorso fa rapporto sulle condizioni del Paese e delinea le priorità politiche della Casa Bianca avendo però solo il potere d’indicare al Congresso una linea giacché è al Congresso federale e non alla presidenza che spetta il potere legislativo.
Epperò è tutto tranne che un appuntamento ufficiale. Lo è divenuto solo per prassi.
L’art. II, sezione 3, della Costituzione federale, infatti, stabilisce solo, riferendosi al presidente: «Di tanto in tanto informerà il Congresso sullo stato dell’Unione e raccomanderà alla considerazione dei suoi membri le misure che giudicherà necessarie e utili». Persino le maiuscole tradizionalmente utilizzato quando se ne scrive, «State of the Union», sono semplicemente una prassi, ciò che rimane di quel modo, ancora ben vivo nel tardo Settecento in cui fu scritta la legge fondamentale del Paese, di maiuscolare certe inziali per enfasi: tant’è che nella farse succitata, l’originale inglese per «considerazione» figura come «Consideration». Nessun motivo, di per sé, per scrivere quello “stato” - cioè “condizione” - con la maiuscola.
Quando vuole, insomma, il presidente comunica al Congresso, e per tramite di questo al paese, come vanno le cose in America. Non ne ha però l’obbligo, soprattutto nella forma che oggi ci è familiare. Potrebbe scegliere, in teoria, anche modi diversi. Persino tempi differenti. Tant’è che così è successo moltissime volte.
George Washington tenne il primo a New York, che allora era la capitale provvisoria del Paese, l’8 gennaio 1790. La Costituzione federale era entrata in vigore da un anno, il 4 marzo 1789, e il “padre della patria” trovò opportuno ragguagliare il Congresso a inizio d’anno. Passò poco però, siamo nel 1801, e un altro “padre della patria divenuto presidente, Thomas Jefferson, l’autore della Dichiarazione d’indipendenza, decise di fare senza. E senza il Discorso sullo Stato dell’Unione così come lo conosciamo oggi il Paese è rimasto per oltra un secolo, dato che la pratica fu ripristinata solo dal presidente Thomas Woodrow Wilson nel 1913. In quel lungo interregno, infatti, il discorso veniva semplicemente scritto e inviato al Congresso dove funzionario ne dava lettura. Che il discorso possa essere inviato e letto da terzi e non in prima persona dal presidente è dunque una possibilità che anche in anni recenti è stata utilizzata, da ultimo da parte del presidente Jimmy Carter nel gennaio 1981 quando si apprestava a cedere la Casa Bianca al suo successore, eletto nel novembre precedente, Ronald W. Reagan.
Anche il nome di quel discorso è una prassi. Fu infatti chiamato Messaggio annuale del presidente al Congresso fino al 1934, allorché il presidente Franklin D. Roosevelt lo ribattezzò utilizzando peraltro una espressione, “Unione” per indicare gli Stati Uniti fortemente carica di significati, soprattutto a quei tempi, molto meno distanti di oggi dalla cosiddetta Guerra Civile, ovvero la Guerra fra gli Stati, dopo la quale la parte vincitrice prese a utilizzare intenzionalmente la formula lincolniana invisa a molti per forte sospetto di centralismo. Anche la data divenne gennaio, visto che fino ad allora era stato il mese di dicembre (precedente).
Il suo modello, peraltro, è il Discorso dal trono che in Gran Bretagna viene pronunciato ogni anno dal sovrano all’apertura dei lavori parlamentari (la monarchia inglese viene infatti definita “Corona in parlamento”). Per questo, in quanto un po’ troppo monarchico, Jefferson lo ridusse a una lettera; per questo, quando Wilson tornò a introdurne la lettura in prima persona da parte del presidente, ci fui chi ebbe da ridire. Quando poi il “monarca repubblicano” Roosevelt, l’uomo che spinse il Congresso a varare l’emendamento costituzionale che limita a due mandati la possibilità di rielezioni anche non consecutive di un presidente (Roosevelt ne ottenne quattro di fila e si fermò nel corso dell’ultimo perché morì), prese a chiamarlo “discorso sullo Stato dell’Unione” i timori antimonarchici di molti americani si trasformarono in aperti sentimenti antitirannici.
Dal 1966 è dunque prassi, altra prassi, chiedere all’opposizione una risposta informale, normalmente filmata in una stanza priva di pubblico e trasmessa per televisione. Ed è altra prassi, di ogni presidente, rivolgersi al Congresso facendo il punto e suggerendo i desiderata legislativi prima della presentazione pubblica della prospettiva di bilancio per l’anno successivo.
Non è insomma un appuntamento così formale come a noi oggi pare il discorso sullo Stato dell’Unione.
Del resto, quanti ricordano che nessun documento formale stabilisce essere l’inglese la lingua ufficiale degli Stati Uniti d’America a livello federale? La lingua ufficiale, infatti, è… nessuna. L’inglese lo è per prassi e per storia.