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IV DOMENICA DI QUARESIMA

Il cieco guarito, dall’oscurità alla luce di Gesù

Nello stupendo racconto battesimale del cieco guarito da Gesù è insito il cammino percorso da un uomo che passa dall’oscurità alla luce: fisicamente perché sanato da una cecità congenita, spiritualmente perché l’incontro con il Signore lo conduce all’esperienza di fede. Abituato a dipendere per vivere, il cieco ha affinato il senso dell’attesa e della fiducia. Diversamente da quei Giudei rigidi nell’autosufficienza e perciò chiusi al rivelarsi di Dio. In questa strana Quaresima siamo chiamati a fissare ancor più lo sguardo su di Lui, unica Salvezza dal male.

Ecclesia 22_03_2020

Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane” (Gv 9, 41). Si conclude così, con un severo monito rivolto da Gesù ai Giudei, lo stupendo racconto battesimale del cieco nato guarito da Gesù. Nel linguaggio di Giovanni, “giudei/farisei” non è una semplice indicazione di appartenenza sociale e indica sempre puntualmente un atteggiamento grave del cuore: chiusura e opposizione.

Trama di questa narrazione miracolosa è il cammino di fede percorso da un uomo che passa dall’oscurità alla luce: fisicamente perché sanato da una cecità congenita e spiritualmente in quanto l’incontro con Gesù lo conduce misteriosamente all’esperienza di fede. Il cieco, nei tanti anni di buio fitto, ha affinato il senso dell’attesa e della fiducia, abituato com’era a dover dipendere per vivere, e ha imparato la libertà dello spirito, in grado di accostare avvenimenti e persone nell’evidenza del loro mostrarsi, nel rispetto del loro mistero e soprattutto senza costringerli in pregiudizi.

Proprio l’atteggiamento contrario di quanto esprimono i Giudei, sprangati nelle loro certezze, rigidi nell’autosufficienza, inguaribilmente miopi nei loro giudizi e dunque ostili ad ogni possibile offerta di grazia.

Tema tipicamente giovanneo e quaresimale, come una filigrana di questo quadro, è il riferimento al peccato, a partire dalla domanda rivolta a Gesù dai discepoli fino alla dura polemica dei farisei. Pur con tutti i distinguo e le doverose precisazioni teologiche, che la rivelazione di Gesù porterà in pieno splendore, l’uomo comune e ragionevole avverte un nesso tra il peccato come disobbedienza a Dio e l’esperienza del male, specialmente nella malattia. “Chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?” (Gv 9, 2).

Il dubbio è lancinante e la questione importante. Gesù immediatamente smonta l’idea di un collegamento diretto (peccato personale/malattia), che troppo semplicisticamente porterebbe a leggere l’avventura umana come un’insanabile esposizione ai colpi di forze superiori e contrastanti, e, con gesti misericordiosi e miracolosi, conduce il cieco e i discepoli in una più attenta riflessione mediante l’esperienza gioiosa della presenza divina salvatrice e pure attraverso il contrasto acceso con l’ostinata incredulità dei Giudei.

Eccolo il nesso. Non un Dio lontano, prono al corso di una natura ribelle, e neppure un Dio vendicativo deciso a punire le disobbedienze con severi e sterili castighi, ma piuttosto un Dio vicino, così vicino da condividere nell’incarnazione e nel mistero pasquale del suo Figlio la fragilità e l’oscurità umana affinché l’uomo possa rintracciare in Lui una via d’uscita, incontrandolo come Verità, come Via, come Luce, come Resurrezione e come Vita.

Tale gratuita opera di salvezza, offerta dalla sapiente misericordia, non accade tuttavia senza resistenze e senza intralci perché, come insegna Giovanni nella sua prima lettera, “Noi sappiamo che siamo da Dio, mentre tutto il mondo sta in potere del Maligno” (1 Gv 5, 19).

I farisei, increduli e oppositori, sono espressione concreta dell’opera del Maligno e, nello stesso tempo, manifestano gli esiti nefasti del suo potere sulla vita dell’uomo. Essi - direbbe Giovanni - non sono generati da Dio perché “chiunque è stato generato da Dio preserva se stesso e il Maligno non lo tocca” (1 Gv 5, 18); essi piuttosto, come afferma Gesù in una precedente polemica, fanno le opere del padre loro (cfr. Gv 8, 41); “Disse loro Gesù: «Se Dio fosse vostro Padre, certo mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato. Perché non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alle mie parole, voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin dal principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. Chi di voi può convincermi di peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio»” (Gv 8, 42-47).

Il messaggio di questa domenica ci esorta a riscoprire quanto accaduto nel Battesimo e a rinnovare l’atteggiamento del cieco guarito di fronte a Gesù: “«Tu credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Tu l'hai visto: colui che parla con te è proprio lui». Ed egli disse: «Io credo, Signore!»” (Gv 9, 35-38). 

La consapevolezza del dono di salvezza risplende nella vita del cristiano che conduce un’esistenza da risorto - “Svegliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà” (Ef 5, 14) -, esistenza che, alla prova dei fatti, come quella dell’uomo guarito, non rimane schiava di precomprensioni o di vuoti ragionamenti, ma si affida docilmente: “Cercate ciò che è gradito al Signore, e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente, poiché di quanto viene fatto da costoro in segreto è vergognoso perfino parlare” (Ef 5, 10-12).

L’esistenza cristiana è vita buona, liberata e gioiosamente vissuta nella fedeltà alla sapienza “che viene dall’alto” (Gc 3, 17); essa non risponde alla logica mondana della presuntuosa autosufficienza e dello stolto ideale del self-made man, ma procede affidandosi e vigilando per non cadere in quella micidiale trappola efficacemente smascherata in un passaggio della lettera agli Ebrei: “Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2, 14-15).

L’illusoria e fallace prospettiva del “carpe diempuò condurre proprio nel baratro che si vorrebbe evitare; la meditazione salutare sulla provvisorietà della condizione umana invece libera dalla cecità e conduce alla vera via della vita. È qui la sostanziale e decisiva differenza tra i Giudei e il cieco guarito: l’uomo umile e vero si affida: “Io credo, Signore” (Gv 9, 38). Il fariseo cieco e arrogante rivendica altre appartenenze e altre sicurezze: “Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè” (Gv 9, 28). La conclusione di Gesù è inevitabile e chiara: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: ‘noi vediamo’, il vostro peccato rimane” (Gv 9, 41).

Pregustando già la sfolgorante luce di Pasqua, che ha inondato gli occhi e il cuore del cieco nato, alla presenza di colui che “non guarda l’apparenza, ma vede il cuore” (1 Sam 16, 7), in questa strana Quaresima fissiamo lo sguardo sul Signore, che ci tende la mano per liberarci dal nostro male e, affidandogli l’incerto fragile momento presente, impariamo a dire con migliore saggezza: “Con l’aiuto di Dio andrà tutto bene”.

* Vescovo di Ventimiglia-Sanremo

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