Il bavaglio Lgbt colpisce le facoltà di medicina
C’è il professore che chiede scusa per aver detto “donne in gravidanza”, il membro di facoltà che manda un’email con scuse preventive ai gruppi Lgbt e gli insegnanti che consultano questi ultimi prima delle lezioni. Sono alcuni esempi, raccolti in un’inchiesta di Katie Herzog, del clima di terrore arcobaleno negli atenei americani.
Il bavaglio arcobaleno non colpisce solo sacerdoti e cristiani, e sarebbe miope non rendersene conto. Tra le vittime eccellenti dell’ideologia gender, infatti, da tempo si segnala anche una realtà che con la religione e i presunti oscurantismi ha poco a che vedere: quella delle facoltà di medicina. A farlo presente, con interessanti approfondimenti, è la giornalista e scrittrice Katie Herzog, la quale si è messa a raccogliere testimonianze di professori e studenti che, il più delle volte, hanno preferito l’anonimato nel riferire ciò di cui sono stati testimoni.
Già questo, a ben vedere, è un particolare che fa riflettere e indicativo del clima che si respira oggi in certi atenei, ma andiamo avanti perché dalle indagini della Herzog sono emerse storie davvero incredibili. Per esempio, quella d’un professore che, nel bel mezzo di un recente corso di endocrinologia in una delle migliori facoltà di medicina dell’Università della California, ha ritenuto di fermarsi scusandosi per qualcosa che aveva detto all’inizio della lezione. Quell’offesa così grave da giustificare lo stop di una lezione universitaria erano tre semplici parole: «Donne in gravidanza». Sì, perché secondo il dogma gender la gravidanza non è esperienza delle donne bensì di chi donna «si sente». Che l’affare sia serio è provato dal caso della parlamentare norvegese Jenny Klinge, recentemente denunciata per aver osato dire che «solo le donne possono partorire», cosa ovvia ma che di questi tempi ricade nella casistica del misgendering, configurandosi come crimine d’odio.
Ma torniamo all’inchiesta di Katie Herzog, la quale riferisce come ormai, nelle facoltà di medicina - dove cioè a dettar legge vi dovrebbero essere solo pubblicazioni scientifiche, evidenze empiriche e statistiche - vi siano insegnanti che, prima delle loro lezioni, si confrontano con membri delle associazioni Lgbt. Avete capito bene: per evitare brutte sorprese dall’inquisizione arcobaleno - che agita le accuse di «omofobia» e «transfobia» con impressionante disinvoltura - ci sono docenti universitari che quasi non entrano in aula, se prima non hanno la certezza di poterlo fare senza incorrere nella gogna mediatica; una cosa che non si vedeva neppure “ai tempi di Galileo”, per dirla con un’espressione nota quanto abusata. Un’ulteriore conferma del clima di terrore che regna negli atenei statunitensi viene da quei professori che, per salvarsi la faccia, ricorrono addirittura alle scuse preventive.
«A un certo punto del semestre, un membro della facoltà ha inviato un’e-mail preventiva», racconta in proposito la Herzog, «avvertendo gli studenti delle prossime lezioni che esse contenevano un linguaggio che non si allineava con “l’approccio all’inclusione di genere e all’anti-oppressione di genere/sesso” della scuola». A quale linguaggio intollerante si alludesse è presto detto: quello includente l’espressione “donne in premenopausa”. «In futuro, ha promesso il professore, questo sarebbe stato aggiornato a “persone in premenopausa”», ha riferito la giornalista, la cui indagine fa capire come l’accademicamente corretto stia mietendo almeno tre vittime eccellenti.
La prima vittima è senza dubbio la verità della differenza sessuale: si nasce maschi e femmine, e il fatto che oggi sia abbia paura di dirlo - facendo passare il dimorfismo sessuale come una sorta di opinione tra tante - nuoce al bene comune. In secondo luogo, vengono i tanti docenti che hanno visto rovinata o almeno ostacolata la loro carriera per aver assunto posizioni non gradite all’universo Lgbt. Herzog ne fa un elenco esteso: Lisa Littman, Ray Blanchard, Ken Zucker, Michael Bailey, Stephen Gliske, Jamie Feusner…
Infine, le terze vittime, ma non certo per importanza, dell’ideologia gender sono loro, i bambini. Il furore ideologico di matrice arcobaleno sta infatti rendendo molto difficile, per psichiatri e specialisti, non appoggiare in modo incondizionato un approccio «affermativo» del genere tale per cui è bene che un minore venga subito avviato al “cambio di sesso” in base a ciò che si sente di essere. Emblematica, in tal senso, la testimonianza, raccolta dalla Herzog, di Julia Mason, pediatra di Portland con un quarto di secolo di esperienza alle spalle. «Una ragazzina di 12 anni è venuta a trovarmi col padre», ricorda la dottoressa Mason, «il quale mi ha detto che erano reduci da un incontro con uno specialista il quale, dopo appena cinque minuti di vista, ha concluso: “Sì, sua figlia è trans”». «Poi sono andati da un endocrinologo pediatrico che ha raccomandato alla giovane i bloccanti della pubertà alla prima visita», aggiunge la pediatra. Che in questo modo offre uno spaccato inquietante ma preciso delle conseguenze che il sacrificio della scienza sull’altare dell’ideologia sta producendo. E, per di più, a danno dei pazienti più giovani e vulnerabili.