I Vangeli frutto di tradizione anonima? Esattamente il contrario
I sostenitori dell'approccio critico ai Vangeli considerano questi ultimi come frutto di una tradizione anonima, creando così una divaricazione tra Gesù della storia e Gesù della fede. Ma studi seri sulla trasmissione e controllo delle tradizioni orali nonché le testimonianze dei Padri della Chiesa dimostrano tutto il contrario.
Tradizione anonima? Ne sono convinti molti sostenitori dell’approccio critico ai Vangeli. Secondo loro, sarebbe stata la comunità cristiana a formare e trasmettere la tradizione sui detti e fatti della vita di Gesù. Non memorie individuali, ma memorie collettive, che rendono obsoleta l’idea di precisi testimoni oculari all’origine della tradizione su Gesù; tradizione che confluirebbe nei quattro Vangeli, anch’essi riferibili a persone ben precise, che hanno condiviso la vita con il Maestro o che sono stati a contatto con i i testimoni diretti. Ipotesi non plausibile.
Eppure sono molti gli elementi che rendono questa posizione più che un’ipotesi.
Anzitutto, la modalità di trasmissione e controllo delle tradizioni orali. Ne avevamo già ampiamente parlato (qui e qui). In questo contesto, è importante ricordare che la trasmissione della tradizione nelle scuole rabbiniche non avveniva nella direzione dal maestro alla comunità, ma dal rabbi ad una cerchia selezionata di discepoli. Sia il rabbi che i discepoli potevano certamente insegnare al pubblico, ma la custodia e il controllo sulla tradizione trasmessa non era di pertinenza della comunità. Detto altrimenti: la comunità riceveva la tradizione dall’insegnamento dei maestri, ma la sua trasmissione era affidata a persone espressamente istruite e autorizzate.
Per la tradizione su Gesù non accadde diversamente. E questo non solamente per una supposizione di continuità con il contesto storico-culturale, ma per le attestazioni che ci provengono dagli scritti cristiani. Nell’opera Esegesi dei detti del Signore, sopravvissuta solo in alcuni passi riportati nella Storia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, Papia di Ierapoli (70-130 ca) riferisce di aver imparato dalla viva voce dei «presbiteri» e di aver «bene impresso nella memoria, sicuro della loro veridicità» il loro insegnamento. E quando si presentava qualcuno che vantava di essere discepolo di uno o l’altro di questi presbiteri, egli chiedeva loro «con insistenza quello che avevano detto Andrea o Pietro o Filippo o Giacomo o Giovanni o Matteo o chiunque altro tra i discepoli del Signore, e inoltre le parole di Aristione e del presbitero Giovanni, discepoli del Signore».
Precisa infatti Papia che quanto aveva appreso, lo doveva non ai loro libri ma «alle cose imparate dalla loro voce viva e sicura» (HE, III, 39, 3-4). Il minimo che si possa dire è che Papia faccia riferimento a persone concrete, tutt’altro che anonime, collegate tra loro come anelli di una catena: i discepoli dei presbiteri, i presbiteri, i discepoli del Signore. Non una vaga comunità.
Un brano della Lettera a Florino di sant’Ireneo di Lione (130-202 ca), anch’essa sopravvissuta nell’opera di Eusebio di Cesarea, conferma ancora una volta che la modalità di custodia e trasmissione della tradizione su Gesù avveniva non per via comunitaria, ma tramite persone ben precise, designate per questo ministero. Per mettere in guardia Florino dalle dottrine gnostiche, Ireneo non si rifà ad altrettante dottrine che circolavano anonime nella comunità cristiana, ma ad un vescovo in carne ed ossa, san Policarpo, che a sua volta aveva ricevuto la tradizione su Gesù da un Apostolo, anch’egli in carne ed ossa: «io sono in grado di dire anche i luoghi dove il beato Policarpo si sedeva a discutere e il suo modo di iniziare e terminare un argomento, il tipo di vita che conduceva, il suo aspetto fisico, le discussioni che teneva davanti alla folla, come raccontava i suoi rapporti con Giovanni e con gli altri che avevano visto il Signore, come ricordava le loro parole e quali erano le cose che aveva udito da loro sul Signore, sui suoi miracoli e sul suo insegnamento e come Policarpo, dopo aver appreso tutto questo dai testimoni oculari della vita del Logos, riferisse ogni cosa conformemente alle Scritture» (HE, V, 20, 6).
Queste due testimonianze non sono ritenute come attendibili da parte dei sostenitori della critica, in quanto le opere citate avrebbero intenti apologetici. Come se tra apologetica e falsità ci sia equivalenza. Ma, a parte questo, essi risultano in realtà perfettamente in armonia con il contesto storico, nel quale, spiega il prof. Richard Bauckham, «l’idea di una catena di insegnanti/discepoli era un modo ben consolidato di rappresentare la trasmissione di una tradizione attraverso un procedimento formale di consegna e di ricezione da parte di “trasmittenti” autorizzati» (Jesus and Eyewitness, p. 297). Questa era la normalità nel contesto rabbinico giudaico; questo viene attestato dalle prime fonti cristiane.
Ma anche gli scritti del Nuovo Testamento dimostrano di essere lontani dall’idea di una trasmissione anonima. I Vangeli presentano nominatim i membri del gruppo dei Dodici, che chiaramente mostra un’autorità e un ruolo primario nella trasmissione della vita e delle parole di Gesù. Gli Atti e le epistole sono a loro volta ricchi di nomi di altri testimoni ben conosciuti e/o di persone discepole del Signore o degli Apostoli, autorizzate a trasmettere quanto avevano ricevuto: Giuseppe Barsabba, Mnasone di Cipro, Giovanni Marco, Filippo diacono, Silvano, Rode, Stefano, etc.
Non è solo l’idea di una tradizione “anonima” ad essere un assunto indiscutibile della corrente critica, ma anche che i Vangeli stessi siano anonimi. I nomi dei quattro evangelisti non corrisponderebbero infatti agli autori di questi scritti. Bauckham fa però notare che vi sono fondate ragioni per respingere questa tesi. Il fatto che i quattro Vangeli non portino un’intestazione o addirittura una firma autografa non significa che effettivamente si ignorasse l’identità del loro autore o che sarebbero il frutto dell’opera corporativa di una comunità. «Molte opere antiche erano anonime in senso formale, ed il nome poteva persino non apparire nel titolo conservato dell’opera» (Jesus and Eyewitness, p. 300); eppure l’identità del loro autore era chiara.
Ne è un esempio La vita di Demonatte, dello scrittore greco Luciano; una biografia antica, nella quale l’autore parla spesso in prima persona, che circolò in una prima fase tra i conoscenti dell’autore senza che vi fosse un riferimento esplicito alla paternità dell’opera. Cosa che avvenne in un secondo momento, quando l’opera iniziò a circolare tra altri lettori. Il Vangelo che più chiaramente dimostra una situazione analoga è quello di Luca, che dedica la sua opera ad un destinatario esplicito, Teofilo – che dunque ne conosceva l’autore –, e che circola tra i cristiani delle comunità raggiunte da Paolo; tant’è che l’Apostolo non aveva bisogno di specificare l’identità del «fratello che ha lode in tutte le chiese a motivo del vangelo» (2 Cor 8, 18).
Inoltre, «in tutta l’antica tradizione manoscritta, dal 200 circa in poi, gli unici titoli dei quattro Vangeli canonici è nella forma “vangelo secondo…” (euangelion kata...)» (Jesus and Eyewitness, p. 300), seguito dal nome di ciascuno dei quattro evangelisti; con l’eccezione dei manoscritti Vaticano e Sinaitico, che hanno solo la formula abbreviata “secondo…”. Man mano che il tempo distanziava le comunità cristiane dalle origini, e dunque da quel contesto che rendeva ovvia l’origine dei Vangeli, si è avvertita l’esigenza di evitare che questi scritti circolassero anonimi. E da allora l’attribuzione è stata unanime, senza che si sollevassero contestazioni a riguardo.
Infine, sono i dettagli stessi presenti nei Vangeli - ne abbiamo già parlato ampiamente in numerosi articoli – a dimostrare che gli autori sono testimoni oculari essi stessi e/o indicano la testimonianza oculare degli eventi che raccontano.