I talebani fanno salotto su Twitter
Razzisti e reclutatori talebani hanno preso d’assalto Twitter per fare incetta di seguaci. E pare ci stiano riuscendo.
Se pensavamo di aver visto il peggio di ciò che i social possono offrirci, specie dopo le dichiarazioni della whistlebowler ed ex-dipendente di Facebook (ora Meta) Frances Haugen, che ha messo in luce le evidenti incuranze del board della piattaforma nella gestione di tutti i problemi psicologici e fisici che Instagram genera nei minori, dobbiamo invece ricrederci. Perché a quanto pare razzisti e reclutatori talebani hanno preso d’assalto Twitter per fare incetta di seguaci. E pare ci stiano riuscendo.
A maggio è nata Spaces, una nuova modalità di fruizione dei contenuti su Twitter, uno dei social network salito alla ribalta per aver bloccato l’account di Donald Trump e aver reso impossibile l’uso della propria piattaforma per attività di propaganda politica durante la campagna elettorale US. Spaces copia un po’ l’idea di Clubhouse, altra piattaforma che quest’anno è stata una vera e propria meteora, cioè la creazione di “stanze” virtuali dove si può comunicare soltanto tramite audio. A metà tra una conference call e un podcast, Spaces offre la possibilità di creare stanze tematiche dove discutere di argomenti approfonditi o semplicemente passare qualche minuto in compagnia.
A differenza di Clubhouse, che inizialmente aveva limitato l’accesso soltanto a coloro che possedevano un invito di qualche iscritto, Twitter ha aperto questa feature a chiunque volesse, senza però intervenire efficacemente su sistemi di segnalazione di contenuti non confacenti la netiquette. I social network, infatti, possiedono dei robot (detti scraper) che monitorano costantemente le parole pubblicate da ogni utente, così da poter segnalare tempestivamente agli addetti ai lavori quando sono compaiono termini-chiave potenzialmente riconducibili ad attività criminose.
Come può sembrare ovvio, i contenuti proposti su Spaces sono orali, non scritti, e pur basandosi sui più raffinati motori semantici e strumenti di trascrizione istantanea, gli errori di “sbobinatura” rimangono frequenti. Così, nel giro di qualche mese sono spuntati, tra gli altri, gruppi di reclutamento talebani e di nazionalisti bianchi, oppure gruppi che incitano all’odio di persone omossessuali o di etnie e religioni di minoranza. Stanze di Spaces che non sono state in alcun modo moderate né da una tecnologia di scansione dell’audio, né da attività umana.
Mentre i reclutatori dell’ISIS incitavano al genocidio sciita, Jack Dorsey consegnava le dimissioni da CEO di Twitter, lasciando vacante una poltrona bollente come non mai, sia per problemi interni di Twitter, sia per le altissime onde che stanno sballottando a destra e a sinistra le grandi compagini della Silicon Valley. Difficile pensare che le proprie dimissioni abbiano avuto questo problema come causa scatenante: sia per l’incuranza generale con cui vengono trattati questi temi, sia perché il fondo Elliott Management, tra gli azionisti del social network, già da tempo stava cercando qualcuno che potesse prendere le redini del social al posto di Dorsey, che si dedicava part time anche a Square, una propria startup di pagamenti elettronici.
Ora lo scettro è in mano a Parag Agrawal, che ha dichiarato tra i suoi primi intenti quello di fare un sano “detox” della piattaforma da tutti i contenuti deleteri. È anche vero che l’obiettivo dichiarato dall’azienda è quello di raggiungere i 315 milioni di utenti unici giornalieri attivi entro il 2023, aumentando del 50% il numero di utenti unici attuali. Una sfida ambiziosa, che non può però essere vinta dimenticandosi una minima moderazione che preservi da attività evidentemente criminali.