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L'INTERVISTA

"I nostri anni con Cito, felice quando gli lavavo i capelli"

La loro storia ha commosso l'Italia, compresi i giornali laicisti. Sono i genitori di Ignazio Okamoto, accudito per 31 anni in stato vegetativo dai genitori che per lui hanno lasciato tutto. Un inno alla vita nell'epoca in cui il fine vita si impone come diritto. La Nuova BQ ha incontrato papà Hector per scoprire quale umanità - e quale fede - si nasconde dietro tanto amore: «Quello che ho fatto me l’ha dettato il cuore». E' la dimostrazione che la legge naturale universale è inscritta in ognuno di noi.

Vita e bioetica 28_08_2019

«Sono battezzato e ho fatto la prima comunione ma non ho mai avuto il tempo di frequentare la Chiesa. Quello che ho fatto me l’ha dettato il cuore». Raggiunto telefonicamente dalla Nuova BQ dopo il funerale e l’assalto della stampa, così parla Hector Okamoto, padre di Ignazio, entrato in coma a 21 anni dopo un terribile incidente stradale. Un figlio amato e assistito per 31 anni fino a venerdì 24 agosto, quando a 54 anni “Cito” – così è sempre stato chiamato dagli amici Ignazio – ha lasciato questo mondo. 

«Era il 19 marzo del 1988, giorno della festa del papà», ricorda al nostro giornale papà Hector, che dopo aver tramandato al figlio la passione per lo sport facendo nascere al Cus di Brescia la prima squadra di baseball, insieme a sua moglie Marina si è completamente dedicato al suo primogenito, che ha visto crescere, diventare adulto e invecchiare. Quasi ci chiede scusa questo mite signore dal volto orientale. «È che mi piace più ascoltare che parlare – ci sussurra al telefono – , eppoi non mi aspettavo tanto clamore solo perché per nostro figlio non abbiamo pensato mai all’interruzione delle terapie e al fine vita». Più che un pensiero lasciato cadere per togliersi dall’imbarazzo questa è una lezione, uno schiaffo allo spirito del mondo reso da chi, nella sua vita, ha dispensato solo carezze.

Rimane incredibile, però, pensare a quanto tempo sia passato da quella primavera del lontano 1988, giorno dell’incidente. Il muro di Berlino era ancora in piedi ma solo il granitico amore di quei genitori e del fratello Fabio non sarebbe mai crollato.

Alla nostra ineludibile domanda, su dove cioè abbia preso la forza per assistere 31 anni il proprio figlio allettato, Hector Okamoto confessa candidamente: «Per i figli si fa tutto, l’amore è incosciente. Mi bastava vederlo felice ogni volta che gli lavavo i capelli per essere ripagato di tutto. Quello per noi due era il momento più bello della giornata. Lo guardavo negli occhi e avvertivo chiarissimamente che il mio Ignazio si rilassava e stava in pace».

Interessante (e indicativa) l’eco destata dalla vicenda. Dopo che il Giornale di Brescia ha per primo raccontato la storia, tutta la stampa italiana, compresa quella laica, ha ripreso il caso: in una società sazia e disperata, trentun anni di amore paziente e incondizionato sono qualcosa che interroga profondamente. Molti commentatori hanno colto la ricchezza di una vicenda destinata ad essere ricordata (Davide Rondoni parla di «un tempo eloquente, esclamante», di trentun anni «gloriosi»). Altri molto meno. Purtroppo. 

Neanche lo spiccato “politeismo etico” del nostro tempo – per usare l’icastica espressione di Max Weber – può arrivare però a difendere certi commenti apparsi sul web. Particolarmente indicativi di un certo degrado culturale è ciò che si è letto in calce all’acido articolo con cui il «Fatto Quotidiano» raccontava di Ignazio Okamoto. Ne offriamo un piccolo florilegio: «Questo vivere a tutti i costi è davvero una grande tragedia per tutti»; «Qualcuno mi trovi una sola ragione per costringere una persona ad una tortura durata 30 anni»; «Trovo assolutamente assurda la tendenza dei nostri tempi di “adorare corpi inanimati come fossero sede di vita reale». Fino agli istinti più bestiali: «Sarebbe interessante sapere quanto è constato al SSN e ai contribuenti italiani mantenere in vita per 31 anni una persona»; «Bisogna dire che i soldi non mancavano a questi genitori.. E sarebbero potuti servire a mantenere due figli adottati con maggiore soddisfazione.. Quando qualcuno muore va lasciato, oppure moriamo con lui».

La verità è che la vita è un mistero, un dono che noi possiamo solo custodire, e che storie d’amore come quella di papà Hector valgono più di mille contorsioni ideologiche sul fine vita. La loro è una testimonianza-bomba che mette letteralmente in crisi, e certe reazioni scomposte finiscono soltanto per ribadirlo. 

Con le poche pennellate raccontate alla Nuova BQ e al resto della stampa (Hector al telefono ci confessa che sua moglie è un po’ stanca di vedere in casa l’andirivieni di giornalisti), nel momento in cui in Italia si sta decidendo lo sdoganamento dell’eutanasia, il mite signor Okamoto non solo mostra una nuova umanità possibile, ma nella prospettiva quanto mai urgente della ricerca di un’etica universale, regala a tutti la possibilità di tornare a considerare seriamente quella legge naturale iscritta nel profondo del cuore dell’uomo.

Con un padre che si definisce «non praticante», ma che suo malgrado sconvolge e commuovere mezzo Paese, la protagonista di questa struggente vicenda non può che essere  proprio la legge naturale universale. Le orazioni funebri si saranno anche sprecate, ma è innegabilmente lei l’elefante nella stanza. Pensiamoci. La vita di papà Hector, il “tempo glorioso” passato con Cito, ci dicono che è ancora possibile – dopo Hume, dopo Kant, dopo Moore, dopo Kelsen – fondare nella natura umana la norma dell’agire. Per di più dando scacco matto alle trite obiezioni laiciste: non siamo di fronte al cosiddetto “integralismo cattolico”, qualsiasi cosa significhi. Siamo semplicemente a cospetto dell’amore di un padre che lascia il lavoro e dedica tutto se stesso alla cura della carne della sua carne. Hector Okamoto lo ha fatto per realizzare il suo fine, quello di essere uomo, perché come amava ripetere il cardinale Elio Sgreccia, «essere uomini non e semplicemente un fatto: è un compito». Con buona pace del «Fatto Quotidiano», Sergio Cotta, il più grande filosofo del diritto italiano, aggiungeva che «l’uomo è capace di pensare l’infinito, l’eterno, l’assoluto», e proprio sotto la spinta di ciò «egli è incessantemente sospinto a oltrepassare la propria limitatezza e a realizzare la propria natura integrale». 

E se è vero, infine, che l’uomo arriva a disvelare il suo compito solo per approssimazioni successive (il principio “fare il bene – evitare il male” è inserito nella natura ma non scaturisce dalla stessa natura: l’uomo semplicemente lo scopre) possiamo immaginare che sia stato nel gesto di osservare il volto di suo figlio Ignazio, nell’imboccarlo, nel massaggiarlo, nel lavargli i capelli, che il messicano di origini giapponesi Hector Okamoto ha compreso tutto, limpidamente. «Quello che ho fatto me l’ha dettato il cuore». É tutto in questa frase sussurrata al telefono.

Prima di lasciarci, Hector ci regala l’ultima perla. «L’unica cosa che avrei desiderato da mio figlio era che un giorno mi avesse sorriso. Ma Ignazio, purtroppo, non poteva comunicare. Pretendevo troppo».