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RAPPORTI DIFFICILI

I giacobini italiani non digeriscono Trump

Renzi teme che la vittoria di Trump gli precluda l'appoggio americano e teme ricadute sulla politica italiana. Avanza un fenomeno che i progressisti italiani non comprendono e non accettano. Lo incasellano nelle categorie di "antipolitica" e "populismo", mentre è un risentimento politico contro i nuovi giacobini.

UN SALUTARE NEO-ISOLAZIONISMO di G. Gaiani

Politica 11_11_2016
La famiglia Trump

Tra la vittoria di Donald Trump in America e il referendum costituzionale in programma in Italia il prossimo 4 dicembre “non c’è alcun legame”, si è precipitato a dichiarare l’altro ieri sera il premier italiano Matteo Renzi con una faccia che diceva il contrario delle sue parole. In realtà invece nel governo, e tra i partiti che lo sostengono, c’è il forte e giustificato timore che l’imprudente schieramento di Renzi a favore di Hillary Clinton e la sua ostentata simpatia per Obama possano adesso diventare un boomerang. D’altra parte il Partito Democratico di Matteo Renzi rientra a pieno titolo in quella galassia internazionale di forze politiche social-progressiste su cui si sta abbattendo l’ondata di risentimento anti-giacobino di cui dicevamo.  

In tale prospettiva la vittoria di Donald Trump appare, quale è, come l’episodio culminante di un processo che da essa riceverà poi ulteriore spinta. Renzi ha pertanto ottimi motivi per preoccuparsene, tanto più se si considera che ormai  da diversi giorni era tornato a proporre il “sì” o il “no” al  referendum costituzionale del 4 dicembre come un “sì” o un “no” a lui e al suo governo. Contravvenendo anche in modo un po’ dilettantesco a elementari regole di bon ton diplomatico, non solo Renzi, ma anche altri leader europei, si erano apertamente schierati per Hillary Clinton lasciandosi anche andare a giudizi sprezzanti su Trump. E adesso si trovano tutti quanti costretti ad arrampicarsi sui vetri per rimediare alla gaffe nella misura del possibile. Nessuno però è in una posizione più difficile di quella di Renzi, che aveva marciato a testa bassa contro la Commissione Europea (e quindi contro la Germania) facendo leva sulla sua amicizia con gli Stati Uniti di Obama oggi e, nelle sue speranze, con gli Stati Uniti di Hillary Clinton domani. Adesso si è perciò venuto a trovare allo scoperto proprio mentre diventa sempre più chiaro che il progetto di bilancio presentato a Bruxelles dal suo governo rischia di venire respinto.

Nell’immediato Renzi e i suoi scontano i loro errori, ma ancor prima e nella sostanza scontano i limiti della cultura ideologica in cui si riconoscono. Per gente così se la realtà non quadra con le proprie idee non sono sbagliate le idee: è sbagliata la realtà. Lo si è bene visto bene in questi giorni dopo la vittoria di Trump. Su quella maggior parte dei giornali e dei telegiornali che davano per certa la vittoria di Hillary Clinton dobbiamo ora assistere, nostro malgrado, a qualcosa di simile a ciò che gli psicanalisti chiamano l’”elaborazione del lutto”. E non mancano reazioni scomposte.

Fabrizio Rondolino, firma importante del quotidiano del Pd L’Unità e persona molto vicina a Renzi, è arrivato a scrivere su Twitter che "Il suffragio universale comincia a rappresentare un serio pericolo per la civiltà occidentale".  Siamo dunque a due passi dalla lode della dittatura; non più del proletariato ma di quelli che evidentemente sono più uguali degli altri. Più cauto e abile, ma in sostanza sulla medesima lunghezza d’onda, l’ex-presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il quale, intervenendo su Radio Rai in un’emissione molto ascoltata, ha detto che l’esito di questo elezioni presidenziali americane è “l’episodio più drammatico nella storia del suffragio universale”. La deputata dem Ileana Argentin per parte sua nel corso di una trasmissione radiofonica ha poi affermato che “l’elezione di Trump è peggio del terremoto” suscitando le comprensibili proteste di deputati eletti nelle zone dell’Italia centrale colpite dai recenti sismi.

I fatti di questi giorni confermano insomma il carattere autoritario di una cultura che, ritenendo di avere in esclusiva la Ragione con la “R” maiuscola, pretende a priori di avere sempre ragione. Perciò non si lascia interrogare dalla realtà, ma se necessario se ne libera inscatolandola. E’ il caso ad esempio del “populismo”, la casella in cui inscatola una varietà di esperienze politiche diverse perdendo così l’occasione di capire di che cosa si tratta. Un’altra casella del genere è quella dell’”antipolitica”: un modo perentorio ed elegante per mettere fuori gioco (in teoria, ma ovviamente non nei fatti) le proposte politiche non gradite. 

Pure a commento dell’elezione di Trump, in un’intervista rilasciata a La Stampa ne ha parlato ampiamente Enrico Letta, il malcapitato premier che Renzi spazzò via prendendone il posto. Forte della francofonia che gli proviene da un’infanzia trascorsa a Strasburgo, Enrico Letta si è autoesiliato a Parigi dove sbarca il lunario, si fa per dire, come docente universitario di  scienze politiche. Secondo lui con le recenti elezioni presidenziali negli Usa “L’antipolitica ha spazzato via due partiti in un colpo solo, democratici e repubblicani, l’intero sistema politico americano”. L’antipolitica, aggiunge, “ha avuto successo in molti Paesi” ma adesso “il leader di questa antipolitica siede alla Casa Bianca (…) e ha in mano le sorti del mondo”. Sembra non venirgli nemmeno in mente che tale pretesa «antipolitica» possa essere piuttosto un’altra politica con cui magari confrontarsi; e quindi anche solo per questo da conoscere. Niente da fare: “Hic sunt leones”.