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CONDANNA DEI LEADER CATTOLICI

Hong Kong: repressione cinese, silenzio Vaticano

Condannati sette leader della protesta democratica ad Hong Kong. Fra questi spiccano le figure di Jimmy Lai, imprenditore ed editore cattolico e di Martin Lee, 82 anni, fondatore storico del Partito Democratico e anch’egli cattolico fervente. Silenzio del Vaticano. Mons. Gallagher, a domanda della rivista America, risponde che occorre prudenza.

Esteri 02_04_2021
Albert Ho e Martin Lee

Condannati sette leader della protesta democratica ad Hong Kong. Fra questi spiccano le figure di Jimmy Lai, imprenditore ed editore cattolico e di Martin Lee, 82 anni, fondatore storico del Partito Democratico e anch’egli cattolico fervente. La loro condanna, assieme ad altri cinque protagonisti della resistenza contro l’avanzata del Partito Comunista Cinese nella città autonoma, è passata abbastanza in sordina nell’opinione pubblica internazionale. Ed è stata anche accolta dal silenzio assordante del Vaticano, nonostante i protagonisti di questa vicenda siano cattolici che si oppongono ad un regime ateo.

La condanna è stata spiccata dalla Corte distrettuale di West Kowloon, per sedizione: i sette leader democratici sono stati dichiarati colpevoli di aver organizzato e guidato la grande manifestazione di protesta del 18 agosto 2019 (1,7 milioni di partecipanti) contro la legge sull’estradizione, che avrebbe consentito alla magistratura cinese di processare cittadini di Hong Kong. Se, allora, i manifestanti avessero potuto vedere nel futuro, avrebbero visto che le loro paure erano fondate. Quella proposta di legge, poi ritirata nell’estate del 2019, era solo un primo test della Cina comunista a Hong Kong. Ad essa sarebbe seguita una stretta totalitaria molto più forte che ha portato alla Legge per la sicurezza nazionale e poi alla riforma elettorale (appena varata) che di fatto hanno cancellato ogni autonomia. La manifestazione del 18 agosto 2019 non era illegale in sé, ma illegale è stato un tratto del suo percorso, non concordato con le autorità. E’ di quell’episodio che sono accusati, a mo’ di pretesto, sette personalità a dir poco scomode agli occhi di Pechino e del governo filo-comunista di Hong Kong. Ora rischiano fino a cinque anni di prigione. La giudice Amanda Woodcock si pronuncerà, in merito, il prossimo 16 aprile. Nel frattempo, Jimmy Lai resta in carcere, gli altri sono liberi su cauzione, ma non possono lasciare Hong Kong.

Oltre a Jimmy Lai e Martin Lee, fra gli altri condannati figurano Lee Cheuk-yan, sindacalista, attivista democratico, sopravvissuto a Tienanmen e organizzatore della veglia annuale in sua memoria ogni 4 giugno. Ora confida che altri continueranno a mantenere viva questa tradizione per commemorare i caduti del 1989. Andranno in carcere anche Albert Ho, Cyd Ho, Leung Kwok-hung e Margaret Ng.

Il quotidiano Apple Daily, edito da Jimmy Lai, ha ripreso ieri le parole del suo fondatore: “Se rinunciamo alla battaglia per la libertà e la giustizia, rinunciamo anche alla nostra dignità di essere umani”. Al processo Jimmy Lai si è dimostrato molto forte, scambia sguardi e sorrisi con la sua famiglia. Sostiene che la sua fede cattolica gli dia il coraggio e la serenità necessari per continuare nella sua battaglia di libertà. Martin Lee, parlamentare di lungo corso, è considerato come un moderato dai democratici di Hong Kong, perché inizialmente sosteneva il modello “un paese, due sistemi” che ora è definitivamente superato dal sistema unico imposto da Pechino. Come Lee Cheuk-yan e Jimmy Lai, è convinto che la libertà, prima o poi, arriverà anche in Cina. “Non importa se non riuscirò a vederla. La vedrà mio figlio. E se non potrà neanche lui, allora ci riuscirà mio nipote”. Il “padre della democrazia” a Hong Kong è stato anche proposto per la prossima candidatura al premio Nobel per la Pace da due membri del parlamento norvegese.

Anche il Senato statunitense, con un raro voto bipartisan, in febbraio ha costituito un comitato per candidare al Nobel per la Pace il movimento democratico di Hong Kong. Il comitato promotore, costituito da nove senatori di entrambi i partiti, sottolinea nel suo documento che diversi attivisti democratici “sono già in prigione o in esilio, mentre altri sono in attesa di giudizio per la sola ragione di aver espresso in modo pacifico il proprio pensiero”. Questa dichiarazione ha suscitato le ire di Pechino, che condanna la “ingerenza” degli Usa nei suoi “affari interni”.

Mentre il Vaticano tace, nonostante la resistenza democratica all’avanzata di Pechino sia animata soprattutto da cattolici, come Jimmy Lai e Martin Lee e dalle scuole cattoliche arrivino anche le giovani leve del movimento, come Agnes Chow (anch’ella in carcere). Questo silenzio, che è un’eccezione rispetto alle numerose dichiarazioni e prese di posizione politiche del Vaticano e del papa stesso, è stato rilevato anche dalla rivista cattolica America che ne ha chiesto una spiegazione a monsignor Paul R. Gallagher, Segretario del Vaticano per i Rapporti con gli Stati. “Penso che riterrà vero che la Santa Sede non ha una politica, una politica diplomatica, di denuncia, quasi ovunque nel mondo. E ci sono violazioni dei diritti umani in molti, molti Paesi”, risponde in modo astratto l’arcivescovo inglese. Tuttavia sulla Cina in particolare specifica che: “Crediamo nel tentativo di lavorare con i cinesi. Il nostro obiettivo nell’accordo (provvisorio, del settembre 2018, ndr) è di risolvere le difficoltà che abbiamo nella nomina dei vescovi”. Quanto alla normalizzazione dei rapporti fra la Chiesa Cattolica e le autorità cinesi, monsignor Gallagher le considera “un obiettivo molto a lungo termine. Mentre la questione della nomina dei vescovi è stata e rimane tuttora una grande priorità”.

E’ in questo contesto che va letta, dunque, la risposta del Segretario per i Rapporti con gli Stati sul silenzio osservato dal Vaticano nella questione di Hong Kong: “Ripeto, non penso che dichiarazioni spettacolari possano risultare molto efficaci. Penso che prima di tutto ci si debba chiedere quali effetti possa provocare una dichiarazione di questo genere. Potrebbe produrre un cambiamento positivo, o renderebbe la situazione più complicata per la Chiesa locale e per le relazioni della Santa Sede? Al momento, penso che sia questo l’approccio corretto”.

Sulla comunità cattolica di Hong Kong, mons. Gallagher commenta: “Ad Hong Kong, ovviamente, la comunità cattolica stessa è divisa in modo significativo sulla politica. Ci sono, si può dire, lealisti pro-Pechino da una parte e persone che vogliono una maggiore libertà e maggior autonomia per Hong Kong”. Su questo punto, l’arcivescovo viene corretto (a distanza) da padre Gianni Criveller, missionario del Pime, che su Mondo Missione commenta: “Tuttavia, a me pare, la comunità cattolica non è divisa a metà e la divisione non riguarda la libertà e la democrazia, due beni desiderati dalla grande maggioranza dei cattolici e dei cittadini. La divisione riguardava piuttosto in che misura e in che forme avrebbe dovuto apertamente sostenere il movimento di protesta. C’era divisione anche sull’opportunità da parte del movimento di accettare risultati parziali piuttosto che continuare con manifestazioni di massa. Una divisione sui mezzi, certamente non sui fini”. Per giungere poi alla conclusione: “Per quanto ne so, la maggior parte dei cattolici di Hong Kong è sinceramente delusa. Mentre hanno attraversato la più grande difficoltà dai tempi dell’invasione giapponese, la Santa Sede ha taciuto. E loro (i cattolici di Hong Kong) difficilmente comprendono il silenzio di oggi sulla testimonianza offerta da leader cattolici rispettati e popolari ora in carcere (come la giovane Agnes Chow) o in attesa di processo (come l’anziano Martin Lee). Educati nelle parrocchie, scuole e associazioni cattoliche, sono entrati nell’impegno politico e sociale per lealtà alla loro fede e coscienza cattolica”.