Il filo rosso che unisce Tienanmen a Hong Kong
C’è un filo rosso che lega eventi come la repressione di piazza Tienanmen e la rivolta di Hong Kong, incominciata 30 anni dopo. A riannodare questi eventi drammatici della Cina contemporanea è Lee Cheuk-yan, leader sindacale e politico ospite a Milano dell'evento di Tempi "La libertà è la mia patria".
C’è un filo rosso che lega eventi come la repressione di piazza Tienanmen, a Pechino, il 4 giugno 1989 e la rivolta di Hong Kong, incominciata nel giugno di 30 anni dopo e tuttora in corso. A riannodare questi eventi drammatici della Cina contemporanea è Lee Cheuk-yan. Ospite della sede del Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere) a Milano all’evento organizzato dalla rivista Tempi “La libertà è la mia patria”, Lee Cheuk-yan è stato un testimone di piazza Tienanmen, sopravvissuto al massacro per poterlo raccontare a Hong Kong, nell’unico angolo in cui se ne può parlare e scrivere liberamente. Per lo meno: si può ancora, perché la rivolta attuale è scoppiata proprio perché si vede il rischio concreto di una completa annessione alla Cina, con la successiva inevitabile imposizione delle regole totalitarie che la governano.
Lee Cheuk-yan non è sicuramente un reazionario, non è un “controrivoluzionario”, nel modo in cui lo intendono i cinesi. E’ un leader sindacale, segretario generale della Confederazione dei Sindacati dei Lavoratori di Hong Kong, non si è mai tirato indietro neppure nella protesta contro il Regno Unito, quando la città era ancora una sua colonia. Parla di diritti dei lavoratori, del fatto che nell’enclave non siano mai stati tutelati, del fatto che non vi sia mai stata una vera rappresentanza democratica, né nel vecchio regime né nell’attuale. Però quando parla della prima rivolta contro il regime comunista cinese, nella primavera del 1989 (iniziata per dare degna sepoltura al leader riformatore Hu Yaobang e poi trasformatasi in un grande movimento popolare per chiedere la riforma democratica), la prima cosa che ci dice è: “Quei cinesi a Pechino ci stavano ridando la speranza. Sapendo che avrebbero potuto trasformare il regime dall’interno, il 1997 ci faceva meno paura. Ci saremmo riunificati ad un Paese libero”. Il 1997, per tutti gli hongkonghesi di allora, era già la fatidica data della restituzione di Hong Kong alla Cina, negoziata nel 1984 (cinque anni prima di Tienanmen) dalla premier britannica Margaret Thatcher e dal presidente cinese Deng Xiaoping. Per facilitare questa transizione, a Hong Kong venne lanciata una petizione pubblica a favore degli studenti e degli operai in piazza a Pechino. Il Concerto per la democrazia in Cina raccolse l’equivalente di 1,5 milioni di dollari. Lee venne inviato a Pechino, a capo di una delegazione per portare gli aiuti promessi ai manifestanti. Fu in quella circostanza che si ritrovò, suo malgrado, nel bel mezzo della repressione militare.
“Il 4 giugno mi fu detto di lasciare immediatamente piazza Tienanmen e lo feci. La folla si spostò sulle vie di accesso della piazza nel tentativo di fermare pacificamente i carri armati che avanzavano”. Nei mesi precedenti, solo parlamentando, i manifestanti erano in effetti riusciti a fermare e rimandare indietro i soldati inviati a sedare la protesta. Il 4 giugno, però, “I carristi avevano ricevuto l’ordine di avanzare rapidamente e senza esitazioni”. Il bilancio delle vittime è tuttora sconosciuto, le stime variano da 2500 a 10mila. Quella notte, Lee, dalla finestra dell’hotel Pechino, sul viale Chang An, vide accatastarsi montagne di cadaveri. “Fu il momento più buio della mia vita, vedevo montagne di corpi e i feriti portati in bicicletta all’ospedale più vicino”.
Tienanmen è il più grande segreto contemporaneo del regime di Pechino. Lee faticò non poco per riuscire a tornare a casa. Imbarcatosi su un aereo, venne arrestato “mi fermarono e mi intimarono di scendere, altrimenti l’aereo non sarebbe potuto partire”. Passò giorni in carcere e venne liberato solo a seguito di una mobilitazione popolare e diplomatica britannica “alla mia libertà contribuì più il popolo che Margaret Thatcher”. Tornato al sicuro a Hong Kong, Lee non ha più potuto viaggiare in Cina, se non un paio di volte, per motivi diplomatici. Membro del Consiglio Legislativo, il mini-parlamento della città, poi fondatore del Partito Laburista, il sindacalista e politico ha continuamente tenuto viva la memoria del massacro. E’ infatti uno degli organizzatori della veglia che si tiene ogni 4 giugno notte a Hong Kong. Dal 1997, data della restituzione, è l’unica manifestazione in memoria delle vittime in tutto il territorio cinese.
Parrebbe una storia a lieto fine per Lee, ma, pur riuscendo a fuggire dalla Cina, adesso è la Cina che sta arrivando in casa sua, con un processo di annessione accelerato che non rispetta gli accordi del 1984. Lee Cheuk-yan è arrivato a Milano, ma nello stesso evento di Tempi, al Pime, doveva essere presente Albert Ho, avvocato e leader del movimento democratico: se non è potuto venire in Italia è perché è stato ferito da sostenitori di Pechino, che lo hanno aggredito a bastonate. La settimana stessa avrebbe dovuto essere in Italia anche Joshua Wong, che però è stato trattenuto a Hong Kong per sentenza dell’Alta Corte. Nonostante l’autocensura, per non irritare Pechino, sia diventata ormai la norma, “cinque librai sono stati arrestati, perché avevano pubblicato e venduto dei libri sulla storia segreta di Xi Jinping, dei libri scandalistici sugli amori nascosti del presidente cinese. Sono spariti, rapiti dai servizi segreti cinesi. Quando sono stati scarcerati, hanno raccontato le torture che avevano subito in carcere. Ebbene, è proprio in quelle circostanze che la governatrice Carrie Lam ha deciso di promulgare una nuova legge sull’estradizione, che consentiva di trasferire anche in Cina i cittadini hongkonghesi accusati di un reato penale dai magistrati cinesi. ‘Ma è impazzita?’ si sono chiesti in tanti. E alla prima manifestazione ha aderito un milione di persone. Carrie Lam ha dichiarato che non avrebbe potuto dar retta a questi ‘capricci’. E alla manifestazione successiva aderivano 2 milioni di persone”. Su una popolazione di 7 milioni e mezzo di cittadini, un terzo degli abitanti era in strada. Il resto è cronaca.
Piuttosto viene preso dallo sconforto quando ha a che fare con la politica europea, nelle sue campagne di sensibilizzazione all’estero. Da bravo sindacalista nota che “i soldi prevalgono sui valori quando un governo europeo deve fare una scelta”. Paradossalmente è un regime comunista al potere che usa i soldi per attrarre consenso internazionale. Lee ricorda della contro-manifestazione in Canada in cui uno dei sostenitori di Pechino è andato a disturbare i manifestanti a bordo della sua Ferrari: era il figlio di un alto dirigente del Partito. Agli ammiratori nostrani del modello cinese, spiega che: “Il Partito è effettivamente efficiente, sa bene come sfruttare i suoi sudditi”. Però: “se è così efficiente, perché tutti i figli dei dirigenti comunisti cinesi studiano qui in Occidente? Perché vanno tutti all’estero?”.
Per Lee Cheuk-yan, la battaglia è tutt’altro che persa: “E’ uno scontro fra Davide e Golia: alla fine del duello, è Golia che è rimasto a terra”. E parlando sempre di 1989, “Fino a pochi anni prima, Lech Walesa non avrebbe mai immaginato di diventare presidente della Polonia. Non ci si deve far impressionare da chi detiene il potere e oggi sembra invincibile. Perché le sorti si ribaltano quando meno ce l’aspettiamo”.