Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
ORA DI DOTTRINA / 103 – La trascrizione

Gli effetti del peccato originale – Il testo del video

Il peccato originale originato è un habitus, ereditato, che porta un disordine. Ha due aspetti: formale (la privazione della grazia e giustizia originale) e materiale (la concupiscenza). La ferita particolare al tatto. Natura: tre modi di intenderla.

Catechismo 11_02_2024

Proseguiamo le nostre riflessioni sul peccato originale e andiamo a vederne un po’ gli effetti. Ma prima di vedere più da vicino questi effetti, partiamo dal fatto che san Tommaso ci spiega che il peccato originale – non come atto di Adamo, ma quello che noi ereditiamo, dunque il peccato originale originato (e non quello originante) – è una disposizione in qualche modo stabile della natura umana, un habitus Questa parola, habitus, si riferisce tradizionalmente, nella filosofia e nella teologia morale, agli abiti operativi, ossia quelle inclinazioni operative verso il bene, la virtù, oppure verso il disordine, il male, il vizio.

Da che cosa conseguono gli abiti operativi, i vizi e le virtù? Conseguono da atti. Una persona virtuosa, ad esempio una persona temperante, è una persona che diventa temperante grazie a degli atti di temperanza. Viceversa, una persona iraconda acquisisce il vizio, e quindi un abito negativo, tramite la ripetizione di atti disordinati, di atti iracondi. È chiaro che se noi intendiamo il peccato originale come habitus in questo senso non ci ritroviamo, perché è qualcosa che noi ereditiamo. Non è una disposizione, un habitus che costruiamo con degli atti. Però, attenzione, san Tommaso ci dice che il peccato originale è comunque un habitus.

E come lo dobbiamo capire questo habitus? Prendiamo la Somma Teologica e andiamo alla quæstio 82, articolo 1, intitolato “Se il peccato originale sia un abito”. San Tommaso dice che il peccato originale «è una disposizione disordinata derivante dal turbamento di quell’armonia che costituiva la giustizia originale» (I-II, q. 82, a. 1). Dunque, è una disposizione, è un habitus; non è un habitus operativo che è acquisito tramite degli atti. È invece ereditato, trasmesso a noi, come abbiamo visto la volta scorsa, tramite la generazione; eppure è un vero e proprio habitus, che porta un disordine. Un disordine che deriva da quel turbamento dell’armonia dello stato originario di cui abbiamo parlato (vedi qui, qui e qui), armonia che non c’è più. La giustizia originale, venendo meno, porta un disordine.

Abbiamo già visto che quello che accade con il peccato originale non è una semplice assenza di qualcosa, ma è una vera e propria privazione, cioè qualche cosa c’era – l’armonia costituita, per usare l’espressione di san Tommaso – e di cui l’uomo viene privato: quindi, non essendoci semplice assenza ma privazione, si sperimenta un male.

Come abbiamo detto, il peccato originale non è un abito operativo, cioè non è questa disposizione disordinata dovuta a vizi nostri (quelli aggiungono altro…), perché il vizio è sopraggiunto per atti disordinati, ognuno nella sua sfera. Ma il peccato originale non proviene da atti nostri, perciò come spiegare che è un habitus?

Appunto, san Tommaso spiega che il peccato originale provoca questa disposizione disordinata perché ha rimosso quell’ostacolo, quel freno che impediva i moti disordinati. Nella risposta alla terza obiezione, san Tommaso dice precisamente che dal peccato originale deriva «una certa inclinazione ad atti disordinati, in quanto esso rimuove l’ostacolo, cioè la giustizia originale, che impediva i moti disordinati» (ibidem). Dunque per remotionem prohibentis: il peccato originale rimuove ciò che proibiva, ciò che impediva il disordine. Questo è importante: lo stato di giustizia originale impediva il disordine delle facoltà dell’anima. Ma il peccato originale, avendo tolto questo freno, ha creato una disposizione disordinata nell’uomo.

È chiaro dunque che questo tipo di impostazione ci permette di comprendere qualcosa di molto importante. E cioè, il peccato originale ha due aspetti che devono essere tenuti insieme. Il primo, formale. Formalmente, che cos’è il peccato originale? È la privazione della grazia, la privazione della giustizia originale, quella grazia che elevava l’uomo allo stato soprannaturale, rendendolo capace della sua chiamata, della sua vocazione a vedere Dio, così come Egli è. E il peccato originale ha privato l’uomo di quella giustizia originale, per cui, essendo la volontà dell’uomo soggetta a Dio, amorevolmente soggetta a Dio, la ragione dell’uomo dominava tutte le facoltà inferiori.

Ricordiamo l’immagine che abbiamo usato l’altra volta: c’era un nodo che teneva in qualche modo in piedi la natura umana, la sollevava, la teneva in ordine. Tagliato questo nodo, la natura umana decade e subentra un disordine, appunto per questa ragione: viene meno la giustizia originale e viene meno la grazia. Perché? Perché il peccato originale è la volontà dell’uomo che si oppone a Dio, rifiuta quell’obbedienza e quella sottomissione a Dio che è il principio dell’ordine; la rifiuta e, rifiutandola, toglie la giustizia originale, perciò toglie il freno al disordine. Quindi, subentra il disordine, che invade la natura dell’uomo.

Dunque, formalmente, il peccato originale è questa privazione della grazia e della giustizia originale. Ma materialmente il peccato originale è la stortura, il disordine delle potenze umane.

Ecco perché, nell’articolo 3 della quæstio 82, san Tommaso si chiede se il peccato originale si identifichi con la concupiscenza. E la risposta è sì, purché si differenzi l’aspetto formale del peccato originale dall’aspetto materiale. Spiega Tommaso: «Tutto l’ordine della giustizia originale si doveva al fatto che la volontà umana era sottomessa a Dio» (I-II, q. 82, a. 3). Questo ordine, la sottomissione della volontà dell’uomo a Dio, era il principio dell’ordine di tutte le facoltà umane e di tutta la creazione. «Sottomissione che avveniva principalmente attraverso la volontà che ha il compito di muovere tutte le altre facoltà verso il fine» (ibidem). La grandezza della volontà è proprio questa: è lei che muove tutte le altre facoltà, inclusa l’intelligenza, verso il loro fine. «Per cui la volontà, con il suo allontanamento da Dio, trasmise il disordine a tutte le altre facoltà dell’anima» (ibidem). Poiché la volontà muove le altre facoltà e avendo distorto questo ordine, allontanandosi da Dio, ha dunque trasmesso a tutte le altre facoltà, che essa muove, questo disordine. «Così dunque la privazione della giustizia originale, che assicurava la sottomissione della volontà a Dio, è la parte formale del peccato d’origine [è il principio che muove, che comunica l’essenza del peccato originale]: mentre tutto il disordine delle altre facoltà ne è come l’elemento materiale» (ibidem). Cioè, le altre facoltà vengono informate, acquisiscono la forma del disordine tramite il disordine della volontà.

Il disordine della volontà è l’aspetto formale: questa forma viene comunicata a tutte le facoltà. «Quest’ultimo disordine consiste soprattutto nel fatto che queste facoltà si volgono disordinatamente ai beni transitori» (ibidem). Cosa vuol dire che la volontà trasmette questa forma alle altre facoltà, questo disordine? Vuol dire che ognuna delle altre facoltà va per i fatti suoi, volgendosi verso beni transitori, verso beni fuggevoli. In sostanza, le nostre facoltà non sono più armonicamente unite e alleate per raggiungere il bene della persona, ma ognuna si perde nel suo bene particolare, transitorio, parziale. «E tale disordine, col nome generico, può essere detto concupiscenza. Perciò il peccato originale materialmente è la concupiscenza; formalmente è la mancanza della giustizia originale» (ibidem).

Dunque, questi sono i due aspetti del peccato originale: formalmente, è la mancanza della giustizia originale, dovuta all’insubordinazione della volontà; ma, tolto questo freno, rimosso ciò che proibiva, per remotionem prohibentis, il peccato originale si trasmette alle altre facoltà e dunque genera la concupiscenza, che è quello che abbiamo detto: ogni facoltà va verso il suo bene particolare e perde di vista il bene dell’uomo. E dunque accade quello che noi sperimentiamo quotidianamente: un bene parziale, che confligge con un altro bene, con dei beni parziali che anziché cooperare al bene dell’uomo diventano degli ostacoli, lo sostituiscono. Questa è la dinamica che è stata originata dal peccato originale.

È interessante che, di tutte le facoltà colpite dal peccato originale – cioè da questo aspetto materiale della concupiscenza e da quello formale, della volontà – san Tommaso ci dica che «quelle facoltà connesse alla trasmissione della vita sono in qualche modo le più colpite» (I-II, q. 83, a. 4). Non dovrebbe essere difficile capire il perché, se riprendiamo quello che abbiamo detto la scorsa volta sul peccato originale che viene trasmesso tramite la generazione. Quando parliamo delle facoltà che sono più legate alla trasmissione della vita, alla generazione, chiaramente stiamo parlando della sfera concupiscibile, che a sua volta ha due dimensioni fondamentali: la sfera sessuale, procreativa, e quella legata alla sopravvivenza, all’alimentazione (mangiare e bere). Di queste due dimensioni, quella legata alla generazione chiaramente è la sessualità. E all’interno della sessualità il senso più “presente” è il tatto.

Ecco perché san Tommaso dice che è proprio il tatto, nella sfera della potenza generativa, della sessualità e quindi del concupiscibile, ad essere stato più colpito, perché è quello più vicino alla trasmissione, all’atto con cui il peccato originale si trasmette. Non che sia un male: non è un male l’unione sessuale ordinata all’interno di un patto nuziale aperto alla vita, l’unione dei coniugi non è un male. E tuttavia è una facoltà ferita, fortemente ferita, dove la concupiscenza si avverte in modo più forte, e dunque richiede un maggior dominio, una maggiore ascesi. Capiamo perciò quanto sono lontane dalla verità tutte quelle impostazioni che non tengono conto di quanto proprio la dimensione della sessualità sia la più colpita, la più ferita e dunque la più vulnerabile. Ecco perché questa dimensione deve essere particolarmente custodita, richiede una particolare ascesi. Non perché sia un male, ma per quello che abbiamo detto. È tutt’altro rispetto a quello che racconta una certa mentalità nata nel Sessantotto e penetrata ovunque, ahinoi, e sovrabbondantemente anche nel mondo cattolico.

La grande lotta della Chiesa contro la pornografia, la contraccezione, l’adulterio, la sodomia, eccetera, nasce da questa consapevolezza, cioè dal bene della sessualità, ma anche evidentemente e realisticamente dal fatto che è una delle sfere che è stata più colpita. Quindi, vediamo come i discorsi che possono sembrare apparentemente lontani, come quello del peccato originale, entrano poi nella nostra vita concreta e permettono di illuminare la comprensione di tante situazioni.

Adesso vediamo un po’ più da vicino alcuni degli effetti del peccato originale. Andiamo a vedere la quæstio 85 della I-II della Somma Teologica. Riassumendo molto, dobbiamo tenere presenti tre principi che danno bene il quadro della situazione e che troviamo espressi nel primo articolo di questa quæstio. Il primo principio lo troviamo nella prima obiezione, ed è una citazione di Dionigi l’Areopagita, e gli altri due sono la scomposizione di una citazione di san Beda, che troviamo nel sed contra di questo articolo. Andiamo con ordine.

Il primo principio, che san Tommaso trae dal De divinis nominibus di Dionigi, è questo: naturalia remanent integra; cioè le cose naturali, che appartengono alla natura dell’uomo, rimangono integre.

Il secondo principio è: homo spoliatus gratuitis, cioè l’uomo viene spogliato di quelle caratteristiche che erano state date gratuitamente alla sua natura.

Terzo principio: vulneratus in naturalibus, cioè l’uomo è ferito negli aspetti naturali.

Dunque, si tratta di tre principi: naturalia remanent integra, non cambia la natura dell’uomo; homo spoliatus gratuitis, l’uomo viene spogliato di tutti quei doni che sono stati “aggiunti” alla sua natura; vulneratus in naturalibus, cioè la sua natura, che permane, è ferita.

Allora leggiamo questo articolo, che è fatto molto bene. San Tommaso spiega che quando parliamo di natura possiamo intendere tre cose. «Primo, i principi costitutivi della natura, con le proprietà che ne derivano, come le potenze dell’anima e altre simili cose» (I-II, q. 85, a. 1). Cioè, l’uomo ha la volontà, l’intelligenza, la sensibilità, eccetera. «Secondo, anche l’inclinazione alla virtù è un certo bene di natura, poiché l’uomo riceve dalla natura, come abbiamo già visto, tale inclinazione» (ibidem). Dio ha dotato la natura dell’uomo dell’inclinazione verso il bene e dunque dell’inclinazione alla virtù. «Terzo, per bene di natura si può intendere il dono della giustizia originale che nella persona del primo uomo fu offerto a tutta la natura umana» (ibidem). Dunque, natura si intende almeno in questi tre modi: 1) com’è fatto l’uomo; 2) l’inclinazione alla virtù, l’uomo è naturalmente inclinato alla virtù; 3) il dono della giustizia originale e l’elevazione soprannaturale che Dio aveva dato all’uomo. Il dono della giustizia originale era un dono che derivava da questo dono soprannaturale.

Attenzione, dati questi tre modi di intendere la natura, san Tommaso spiega: «Il primo di questi beni di natura non viene né distrutto né diminuito dal peccato» (ibidem). Dunque, è il principio che dicevamo prima: naturalia remanent integra. L’uomo non smette di avere una volontà, non smette di avere un’intelligenza, non smette di avere una dimensione irascibile, non smette di avere il concupiscibile, non smette di avere i cinque sensi, la potenza generativa, eccetera.

«Il terzo [cioè il dono della giustizia originale] invece fu eliminato totalmente dal peccato del progenitore» (ibidem). Ed è quello che abbiamo detto con l'espressione homo spoliatus gratuitis, l’uomo è spogliato di quei doni gratuiti che derivavano dalla giustizia originale, la quale era legata appunto alla grazia. Questo viene meno. Infatti noi non nasciamo con la grazia divina, non nasciamo in uno stato di giustizia originale. E infatti avvertiamo dentro di noi la concupiscenza e l’insubordinazione della volontà a Dio: per noi non è più semplice, “naturale”, sottomettere la nostra volontà a Dio.

E così, il terzo principio: «Il bene di natura che sta nel mezzo, cioè l’inclinazione naturale alla virtù, viene diminuito dal peccato». Vulneratus in naturalibus, la virtù non è più naturale, in generale tutte le facoltà naturali dell’uomo vengono indebolite, sono ferite: non sono annullate, ma sono ferite.

Questo è un po’ il contesto della situazione che si è venuta a creare dopo il peccato originale. Ora, zoomiamo un po’ questa spoliazione dopo il peccato. Che cosa ci dice questa spoliazione? Ci dice che l’uomo nasce escluso dalla visione beatifica, perché non nasce più con la grazia. La grazia non è più una prerogativa concessa da Dio all’uomo fin dal principio, l’abbiamo persa; ecco perché è fondamentale il battesimo. Non si capirebbe l’indispensabilità del battesimo senza questa consapevolezza di che cosa il peccato originale ha provocato.

Noi vediamo gli altri aspetti della vulnerabilità dell’uomo. Vediamo sicuramente la concupiscenza; l’inclinazione dell’uomo alla virtù diventa una lotta, una lotta per la virtù. Sappiamo molto bene che la virtù costa fatica. Abbiamo dentro di noi questa lotta, la sperimentiamo. Questo è molto importante capirlo, perché c’è una certa idea per cui il benessere dell’uomo sarebbe qualche cosa di originario, ossia ciò che turba la mia quiete non va bene, va allontanato. Attenzione, dipende; perché a turbare la “quiete” può essere proprio la lotta per la virtù, che poi stabilizza in un’altra forma di pace, molto più profonda. È una pace che nasce da una lotta, una guerra.

Ancora, la vulnerabilità dell’uomo la si vede chiaramente nella morte. L’uomo, da quando viene concepito, è esposto alla morte tutti i giorni della sua vita, fino a quando essa arriva. E non era così. La vita della grazia, la giustizia originale comunicavano al corpo l’incorruttibilità, l’immortalità. Tutte le miserie corporali di cui facciamo esperienza – la malattia, la fatica, la debolezza, l’esposizione ai pericoli – sono conseguenze, effetti del peccato originale che riguardano quella “vulnerazione” della natura e che hanno, come dice san Tommaso, aspetto di pena.

Invece, quando parliamo di vulneratus in naturalibus in modo più specifico, che cosa intendiamo? Intendiamo quattro aspetti che san Tommaso riporta nell’art. 3 della quæstio 85: «La giustizia originale fu distrutta dal peccato di Adamo [il punto di partenza è sempre questo]. Di conseguenza tutte le facoltà dell’anima rimangono come destituite del proprio ordine, dal quale erano indirizzate naturalmente alla virtù: e questa destituzione si dice che è un ferimento della natura» (I-II, q. 85, a. 3). Questo è il vero e proprio vulnus, questa è la vera e propria ferita della natura. La natura non viene meno, l’uomo non cambia nella sua struttura naturale; ecco perché la conoscenza anche filosofica dell’uomo, le arti, la scienza, la tecnica, eccetera, restano cose che di per sé continuano ad avere il loro senso, il loro significato, la loro bontà. Tuttavia, questa natura è vulnerata, è ferita, è fragile, è diventata debole, per questa ragione che ha appena spiegato san Tommaso.

Adesso vediamo le quattro grandi conseguenze di questo ferimento: «Dal momento quindi che la ragione è destituita dal suo ordine alla verità, si ha la piaga dell’ignoranza» (ibidem). Cioè la volontà fa strike sulle altre facoltà: la prima che impatta è l’intelligenza, la ragione. La ragione, dunque, è destituita dall’ordine alla verità; il disordine è entrato anche lì e quindi abbiamo la piaga dell’ignoranza. Abbiamo detto che i progenitori avevano una scienza infusa, che non veniva comunicata come infusa, ma veniva comunicata come conoscenza; e la ragione aveva questo habitus naturale e virtuoso verso la verità. Ora c’è una ferita e la ragione è segnata dall’ignoranza. Dunque, uscire dall’ignoranza diventa un cammino faticoso per l’uomo.

«Con la perdita dell’ordine che la volontà sperimenta per il bene, si ha la piaga della malizia» (ibidem). La volontà non ha più ordine verso il bene; la volontà è fatta per il bene, questo dato di natura non cambia, ma non è più inclinata lì. E dunque abbiamo la malizia che deve essere vinta con la virtù.

Terzo, «in quanto irascibile, l’uomo è privato del suo ordine alle cose ardue, e si ha la piaga della fragilità» (ibidem). L‘uomo è piagato dalla paura, dalla pusillanimità.

Quarto, «in quanto infine viene tolto alla concupiscenza il suo ordine al bene dilettevole regolato dalla ragione, si ha la piaga della concupiscenza» (ibidem). Cioè, la sfera del concupiscibile a che cosa è orientata? Era orientata al bene dilettevole, quindi anche al piacere, regolato però dalla ragione: ora questo ordine non c’è più. E dunque ecco che entra la vera e propria concupiscenza, cioè un’inclinazione al bene dilettevole, ma non più ordinato alla ragione. Da qui tutta la fatica dell’ascesi per riportare questa nostra dimensione concupiscibile nell’ordine della ragione, quindi nell’ordine del Bene dell’uomo.

Abbiamo concluso le nostre catechesi sul peccato originale. La prossima volta vedremo che cos’è il peccato attuale dell’uomo, cioè quello che noi compiamo, quello che è causato dai nostri atti.

La Quaresima è imminente, perciò buon santo inizio del cammino quaresimale.



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