Gli ebrei cinesi di Kaifeng, perseguitati dal comunismo
Dal X secolo esiste a Kaifeng (Cina) una piccola comunità ebraica, che nel tempo ha attirato l’attenzione di padre Matteo Ricci e diversi studiosi. Con la Rivoluzione culturale di Mao, gli Youtai furono bollati come “spie” e oggetto di persecuzioni. Che dopo un periodo di limitata tolleranza sono riprese nel 2015 con la campagna di sinizzazione delle religioni intrapresa dal Partito comunista.
Quando si parla di persecuzione religiosa in Cina il pensiero va subito ai cristiani - cattolici in testa - e ai musulmani uiguri. Poco si sa, invece, sul trattamento riservato alla piccola ma antichissima comunità di discendenza ebraica di Kaifeng. Nell’antico capoluogo della provincia di Honan la loro presenza risale almeno al X secolo dopo Cristo, quando commercianti ebrei della Persia, seguendo la via della Seta, vi si trasferirono durante la dinastia Song e qui costruirono la prima sinagoga della Cina nel 1163.
Nel corso dei secoli, nonostante incendi e inondazioni, la comunità ebraica di Kaifeng prosperò tanto da attirare l’attenzione di padre Matteo Ricci che incontrò uno dei suoi membri a Pechino nel 1605 e ne scrisse nei suoi Commentari e nelle Lettere, svelando la loro esistenza all’Europa. Quest’incontro avviò una serie di contatti tra la comunità e i gesuiti che ancora nel XVIII secolo attestavano nei loro resoconti la lettura della Torah e la conoscenza della lingua ebraica a Kaifeng.
Tra il Settecento e l’Ottocento, di pari passo con il declino dell’impero, si avviò anche la crisi inesorabile della comunità ebraica locale che nel 1810 perse il suo ultimo rabbino e nel 1854 vide la propria sinagoga, in passato danneggiata e ricostruita in più occasioni, cadere in rovina per poi essere distrutta definitivamente da un’alluvione nel 1861. L’area della sinagoga (in alto una foto del 1910 dell'East Market Street) venne venduta nel 1914 alla missione anglicana canadese. Nonostante ciò, diverse famiglie di discendenza ebraica mantennero intatte e tramandarono le usanze degli antenati. Negli anni Cinquanta l’indagine di un sinologo ceco documentò la presenza di 100 famiglie locali che continuavano a dichiararsi d’identità ebraica.
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, con lo scoppio delle ostilità tra nazionalisti e comunisti, quasi tutti gli ebrei che si erano stabiliti a Harbin, Tianjin e Shanghai a seguito della persecuzione zarista e di quella nazista preferirono emigrare verso Europa, America, Israele e Hong Kong. In seguito all’affermazione dei comunisti, i discendenti dell’antica comunità non rinunciarono alle tradizioni e a definirsi ebrei anche sulla carta identità, circostanza che venne accettata dalle autorità locali mentre il governo centrale rifiutò di riconoscere loro lo status di minoranza nazionale.
Gli anni della Rivoluzione culturale di Mao, con l’avvio della campagna per estirpare dalla società le “vecchie idee, la vecchia cultura, le vecchie tradizioni, le vecchie abitudini” furono i più difficili per queste famiglie così profondamente attaccate alla loro identità: i testimoni intervistati da Peter Kupfer, sinologo dell’Università di Magonza e autore di uno studio specifico sul tema, hanno parlato di “persecuzione”, ricordando genitori bollati persino sui documenti come “spie” e sottoposti a fermi di polizia con l’accusa di essere “cani dell’imperialismo americano”. La morte di Mao e la sconfitta della Banda dei Quattro permise alla Cina di inaugurare la cosiddetta politica di riforme e apertura a cui seguì un miglioramento della condizione degli Youtai (ebrei cinesi) di Kaifeng, la cui storia divenne materia di grande interesse per gli studiosi occidentali al punto che il neonato Sino-Judaic Institute cominciò ad organizzare dei tour nei luoghi più rappresentativi.
Il contatto con gli ebrei occidentali rafforzò la consapevolezza delle proprie origini nei discendenti e grazie alle donazioni straniere venne inaugurato un sito archeologico nei pressi della vecchia sinagoga e un museo. Grazie all’impegno del Sino-Judaic Institute venne aperta una scuola ebraica e furono inviati in loco insegnanti occidentali, mentre s’intensificarono gli incontri di studiosi con i discendenti più anziani organizzati, però, sotto la stretta sorveglianza delle autorità locali che esortavano con delle linee-guida ad esaltare lo stile di vita in Cina e a rifiutare qualsiasi donazione “orientata religiosamente”. I funzionari imposero agli anziani Youtai selezionati per le interviste di affermare che non avrebbero voluto celebrare lo Shabbat insieme ad altri.
Nonostante le maglie strette del regime, gli scambi culturali riportarono vitalità nella piccola comunità e nelle generazioni più giovani la riscoperta delle radici facilitò anche la curiosità per le pratiche religiose. Nel 2010, per la prima volta, si iscrissero sette candidati originari di Kaifeng nelle accademie rabbiniche d’Israele e l’attività di organizzazioni come Shavei Israel, attraverso la fornitura di libri e materiali, fece crescere in molti la volontà di convertirsi formalmente all’ebraismo. Quattordici ebrei di Kaifeng scelsero di fare l’aliyah e si trasferirono in Israele. Ma ci fu anche chi tra loro, come il giovane Heng Shi, scelse di tornare in più occasioni nella città originaria per celebrare il Seder di Pasqua insieme agli ottanta membri della comunità che partecipavano regolarmente alle funzioni di culto. Gli emigrati in Israele, inoltre, non recisero il legame con i familiari in Cina e questo contribuì ad accrescere la curiosità culturale e anche religiosa di chi rimase.
La limitata tolleranza delle autorità comuniste nei confronti della comunità formata oggi da meno di mille persone tramontò definitivamente nel 2015 con l’avvio della campagna per la sinizzazione delle religioni voluta da Xi Jinping. Dopo una brusca irruzione durante la quale gli agenti governativi strapparono una stella di David di metallo dall’ingresso e la gettarono sul pavimento, il centro ebraico di Kaifeng venne chiuso e al suo esterno furono attaccati manifesti inneggianti alla repressione della religione e montata una telecamera per disincentivare le riunioni. Vennero smantellate anche le indicazioni del sito archeologico e chiuso con pietre e immondizia il pozzo scavato per le mikveh (le piscine per le abluzioni rituali).
Dal momento che l’ebraismo non è inserito tra le cinque ‘dottrine’ religiose riconosciute nella costituzione cinese, gli ebrei di Kaifeng sono particolarmente esposti alla repressione antireligiosa del regime e non possono riunirsi collettivamente per le pratiche di culto. Della loro situazione si è occupato qualche settimana fa il Telegraph, a cui uno dei membri della comunità ha accettato di parlare dietro la promessa dell’anonimato. L’uomo ha raccontato al quotidiano britannico che da quando è scattata la nuova stretta sulle religioni “ogni volta che festeggiamo, abbiamo paura”. In occasione della recente festività di Hanukkah, gli ebrei cinesi hanno dovuto nascondere i candelabri per paura di essere osservati dai funzionari governativi. Secondo l’uomo, che ha raccontato di essere costretto a praticare la sua fede in clandestinità e a doverla trasmettere di nascosto ai figli, “il loro obiettivo è assicurarsi che la prossima generazione non abbia alcuna identità ebraica”.
Lo stesso obiettivo lungamente inseguito da Mao negli anni della Rivoluzione culturale quando - pare - prese personalmente la decisione di far registrare nei documenti ufficiali i discendenti dell’antica comunità come “Han” (il gruppo etnico maggioritario della Cina) nonostante la loro volontà di essere identificati come “Youtai”.