Giuseppe e il matrimonio con Maria, mistero di salvezza
Dalle nozze con Maria derivano a Giuseppe la partecipazione «all’eccelsa grandezza di lei» (Leone XIII) e i diritti paterni su Gesù. I due santi sposi, entrambi vergini, con la loro obbedienza alla volontà divina e l'accoglienza del Salvatore diventano la coppia che, diversamente da Adamo ed Eva, «costituisce il vertice, dal quale la santità si espande su tutta la terra» (Paolo VI). Dal loro matrimonio bisogna allora partire per una vera catechesi sulla famiglia.
Iniziamo oggi una rubrica con cadenza mensile, ogni 19 del mese, in onore di san Giuseppe, che si dipanerà, a Dio piacendo, lungo tutto lo speciale anno (8 dicembre 2020-8 dicembre 2021) dedicato al padre putativo di Gesù, indetto da papa Francesco a seguito della pubblicazione della lettera apostolica Patris Corde e annunciato attraverso un decreto della Penitenzieria Apostolica che concede la possibilità di lucrare speciali indulgenze.
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Delineando la genealogia di Gesù, all’inizio del primo dei quattro Vangeli, la prima espressione che Matteo usa per riferirsi a Giuseppe è «lo sposo di Maria». È da Lei che «è nato Gesù chiamato Cristo», come subito aggiunge l’evangelista nel prosieguo del medesimo versetto (cfr. Mt 1, 16). Fin da qui, dunque, è chiaro che dal matrimonio con la santa Vergine discendono i diritti paterni di san Giuseppe e il suo ruolo straordinario, preordinato dall’eternità, nel servire il mistero della Redenzione.
Nel ricordare i motivi per cui il capo della Santa Famiglia è patrono speciale della Chiesa, Leone XIII sottolineò - insieme alla paternità - proprio il matrimonio: «[…] poiché tra Giuseppe e la beatissima Vergine esistette un nodo coniugale, non c’è dubbio che a quell’altissima dignità, per cui la Madre di Dio sovrasta di gran lunga tutte le creature, egli si avvicinò quanto nessun altro mai. Infatti il matrimonio costituisce la società, il vincolo superiore ad ogni altro: per sua natura prevede la comunione dei beni dell’uno con l’altro. Pertanto se Dio ha dato alla Vergine in sposo Giuseppe, glielo ha dato pure a compagno della vita, testimone della verginità, tutore dell’onestà, ma anche perché partecipasse, mercé il patto coniugale, all’eccelsa grandezza di lei» (Quamquam Pluries, 15 agosto 1889).
Un secolo più tardi Giovanni Paolo II spiegava che Dio ha voluto incarnarsi, nella pienezza dei tempi, in una famiglia. Questa decisione divina doveva essere preceduta, nella sua concreta attuazione, dalle nozze di Maria e Giuseppe. «Nel momento culminante della storia della salvezza, quando Dio rivela il suo amore per l’umanità mediante il dono del Verbo, è proprio il matrimonio di Maria e Giuseppe che realizza in piena libertà il dono sponsale di sé nell’accogliere ed esprimere un tale amore» (Redemptoris Custos, 7).
Riguardo alla piena libertà di tale dono sponsale, va richiamato il fatto che mistici e dottori della Chiesa insegnano che entrambi i santi sposi avevano fatto voto di verginità già nella loro fanciullezza, ribadendolo poi nel matrimonio. Lo sapeva bene un noto e compianto josefologo, padre Tarcisio Stramare (1928-2020), religioso degli Oblati di San Giuseppe e tra i principali collaboratori di Giovanni Paolo II alla stesura della RC. «Il matrimonio di Maria con Giuseppe, che era destinato ad accogliere ed educare Gesù, comportava necessariamente - scrive padre Stramare - la massima espressione dell’unione coniugale, ossia il grado supremo del dono di sé. La verginità, che esprime e garantisce l’assoluta gratuità del dono, va dunque candidamente ammessa in quel matrimonio, riconoscendo che essa non solo non compromette l’essenza del matrimonio e della paternità, ma la evidenzia e la difende, secondo il duplice assioma agostiniano: “sposo tanto più vero quanto più casto” e “padre tanto più vero quanto più casto”» (La Santa Famiglia di Gesù, Shalom, 2010, p. 75).
Maria e Giuseppe, desiderando realizzare la sola volontà di Dio, si rendono docili strumenti nelle Sue mani e compiono dunque ciò che Adamo ed Eva non avevano saputo fare, cadendo per la loro disobbedienza nel peccato originale, da cui deriva il disordine della concupiscenza. Il santo matrimonio che precede l’incarnazione del Verbo è quindi una realtà talmente legata ai misteri salvifici da essere fondamentale in ogni autentica catechesi familiare. Come spiegò Paolo VI il 4 maggio 1970 nell’allocuzione al movimento Équipes Notre-Dame: «In questa grande impresa del rinnovamento di tutte le cose in Cristo, il matrimonio, anch’esso purificato e rinnovato, diviene una realtà nuova, un sacramento della nuova Alleanza. Ed ecco che alle soglie del Nuovo Testamento, come già all’inizio dell’Antico, c’è una coppia. Ma, mentre quella di Adamo ed Eva era stata sorgente del male che ha inondato il mondo, quella di Giuseppe e di Maria costituisce il vertice, dal quale la santità si espande su tutta la terra. Il Salvatore ha iniziato l’opera della salvezza con questa unione verginale e santa, nella quale si manifesta la sua onnipotente volontà di purificare e santificare la famiglia, questo santuario dell’amore e questa culla della vita».
Per quanto detto, è oggi quantomai necessario dare il giusto risalto al legame sponsale tra Maria e Giuseppe, sottolineandone la naturale reciprocità, in accordo ai Vangeli. In questo senso, padre Stramare notava per esempio che perfino nelle Litanie Lauretane manca ufficialmente un titolo che onori la Madonna quale «sposa di Giuseppe», quando questo sarebbe conveniente, a maggior ragione per rimediare alla liquidità di certa teologia contemporanea che ha tra le sue vittime proprio la scomparsa del ruolo di Giuseppe, «specchio questo dello squilibrio sociologico e culturale della famiglia moderna, dove la figura “maschile” sta scomparendo sia come “padre” sia come “sposo”» (San Giuseppe - Dignità. Privilegi. Devozioni, padre Tarcisio Stramare, Shalom, 2008).