Giovanni di Dio, il santo che assunse la sofferenza su di sé
La Chiesa celebra oggi san Giovanni di Dio, che ebbe una vita avventurosa e pure dei disturbi mentali prima di farsi carico delle sofferenze altrui e fondare i Fatebenefratelli. Il suo esempio, come quello di altri santi, aiuta a comprendere che il dolore unito a quello di Cristo fa diventare l’anima come l’oro provato nel crogiuolo.
Quando si soffre si vedono le cose in una prospettiva molto diversa, più profonda e quindi più essenziale. La sofferenza non è solamente di tipo fisico, c’è anche la sofferenza mentale che purtroppo non è meno dolorosa. Riflettendo su questo il pensiero corre a san Giovanni di Dio (1495-1550), un santo che la Chiesa celebra oggi, 8 marzo.
Juan Ciudad, il nome del nostro Giovanni, era portoghese. Ebbe una vita avventurosa, anche toccata da quelli che sembravano disturbi mentali, che lo portarono a un ricovero ospedaliero che lo fece riflettere sull’altrui sofferenza, su come questa veniva considerata e trattata da coloro che erano chiamati a guarire i corpi. Ma i corpi non sono nulla senza l’anima e se questa non viene presa nella giusta considerazione anche il corpo ne risente, non guarisce o si rifiuta di guarire. Ecco che Giovanni pensò di dare valore alla sua vita occupandosi della sofferenza, di come lenire le malattie e prendersi cura dell’uomo come soggetto integrale e non solo in un’ottica materialista. Fondò degli ospedali che erano ben organizzati per far sentire i malati accolti, amati, compresi.
Il nostro Giovanni di Dio si convertì pienamente a questa sua nuova missione ascoltando una predica di san Giovanni d’Avila (1500-1569), un santo che diceva: “Il solo onore per la Chiesa è di seguire interiormente ed esteriormente il Cristo disprezzando le ricchezze, il lusso, l’orgoglio e tutti gli altri difetti che farebbero gridare le pietre stesse”. Ecco, questo disprezzo fu messo in atto dal nostro Giovanni, che pur non avendo nozioni di medicina si dedicò anima e corpo alla costruzione di ospedali riunendo intorno a sé dei seguaci, i Frati ospedalieri, da tutti conosciuti come i “Fatebenefratelli”, dalla frase che Giovanni pronunciava quando chiedeva l’elemosina. San Giovanni d’Avila affermava anche quanto segue: “Bisogna scavare nel fango del nostro nulla per raggiungere la terraferma: Dio. Poiché il Signore sulla croce ci ha donato tutto, dobbiamo amarlo fino alla follia e seguirlo sulla croce”. Ecco, questo scavo che lo aveva portato sull’orlo della follia, fu fatto da Giovanni di Dio e in fondo, dopo aver tanto scavato, trovò che la follia (“scandalo e stoltezza” è in fondo un concetto paolino che si riferisce a come il mondo vede i cristiani) era nell’amare la croce; e la croce è sofferenza.
Per intenderci: Dio non ama vedere le persone soffrire. Che Dio sarebbe questo? Un Dio che si diverte nel vedere i suoi figli penare? No, Dio non ama la sofferenza in se stessa, ma ama particolarmente coloro che soffrono - e accettano questa sofferenza - proprio perché così sono misteriosamente uniti alla Passione del Figlio. Nessuno ama la fatica, ma senza fatica non si ottengono cose belle nella nostra vita. Ecco, la sofferenza è come la fatica, non la si ama per se stessa ma per quello che può portare nella nostra esistenza. Solo grandi anime arrivano quasi a desiderare la sofferenza, perché in grado completamente di sublimarla, come santa Teresa di Lisieux che diceva: “Desideravo soffrire e sono esaudita. Ho sofferto molto, da parecchi giorni. Una mattina, durante il ringraziamento, ho provato come le angosce della morte, e con ciò nessuna consolazione! Accetto tutto per amore del buon Dio, perfino i pensieri stravaganti che mi vengono alla mente e mi danno noia”.
La stessa Teresa dà una spiegazione al valore che dobbiamo dare alla sofferenza: “Se Dio ci regalasse l’intero universo con tutti i suoi tesori, tutto ciò non sarebbe paragonabile alla più lieve sofferenza. Che grazia quando al mattino non ci sentiamo un briciolo di coraggio, un briciolo di forza per praticare la virtù! Allora è il momento di mettere la scure alla radice dell’albero (Mt 3,10). Invece di perdere il tempo a racimolare qualche povera pagliuzza, affondiamo le mani nei diamanti!”. Ecco, essa ha valore perché ci unisce a quella Passione da cui è venuta la nostra salvezza. E, parliamoci chiaro, una religione che sia credibile, non può che tenere in gran conto e offrire una prospettiva sulla sofferenza, proprio perché essa è così gran parte della vita di tutti noi, nessuno escluso. Nessuno sfugge alla sofferenza.
Lo scrittore Curzio Malaparte affermava: “La morte non mi fa paura: non la odio, non mi disgusta, non è, in fondo, cosa che mi riguarda. Ma la sofferenza la odio, e più quella degli altri, uomini o animali, che non la mia. Sono disposto a tutto, a qualunque vigliaccheria, a qualunque eroismo, pur di non far soffrire un essere umano, pur di aiutare un uomo a non soffrire, a morire senza dolore“. Ecco, seppure nello scopo di Malaparte ci sia un’intenzione nobile, quella di alleviare la sofferenza, c’è anche un errore di prospettiva perché non capisce che la sofferenza è spesso una preparazione alla morte e per alcuni anche una espiazione prima del Giudizio. La capacità di offrire la sofferenza è una grande cosa, è saper dire a se stessi e agli altri che anche nei momenti in cui sembra che stiamo per perderci, siamo in grado di non lasciare la mano di Dio.
Certo, perdersi quando si soffre è una possibilità concreta. Quando si soffre non si sente a volte la presenza di Dio. Il cardinale Carlo Caffarra osservava: «C’è un salmo che, vi confesso, ogni volta che lo recito mi commuove sempre profondamente perché a un certo punto il salmista compositore del salmo dice: “Ed essi mi dicono: dov’è il tuo Dio?”. La domanda che faceva versare lacrime al salmista può esserci oggi rivolta dallo scettico: “Ma dov’è il vostro Dio?” (“Ma cos’è la verità?”, dice Pilato), oppure dal disperato: “Dimmi dov’è davvero il tuo Dio”. Cioè come dire: “Intanto anche tu non sai dov’è”. Dov’è, qual è il luogo della Sua presenza, luogo entrando nel quale e dimorando nel quale l’uomo possa celebrare la festa della sua beatitudine. […] Dice sant’Agostino proprio commentando questo salmo: “Quando gli uomini celebrano le loro feste, sono soliti collocare alcuni strumenti musicali dinnanzi alle loro case, oppure ingaggiare suonatori, insomma suonare qualche musica. Chi passa, udendola, che cosa dice? Chiede di che cosa si tratta. Risponderanno che si tratta di una festa. Diranno che è una festa per un compleanno, oppure che si tratta di una festa di nozze, affinché quei canti non sembrino fuori luogo. Nella casa del Signore la festa è eterna, non vi si celebra una festa che passa, perché il volto di Dio dona una letizia che non viene mai meno. E questo giorno di festa non ha né inizio né fine. Da quella eterna e perpetua festa risuona nel cuore dell’uomo un non so che di dolce e di canoro, il suono di quella festa accarezza le orecchie di chi cammina là dove si compiono i miracoli di Dio nella redenzione dei fedeli, nella Chiesa”» (La famiglia e le sfide di oggi, 1991).
Ecco, da questa riflessione del cardinale Caffarra possiamo capire come compito di chi è vicino a chi soffre è proprio quello di far risuonare quella “letizia che non viene mai meno”. Dare una speranza non solo per la guarigione del corpo, ma soprattutto per un pieno risanamento, una guarigione di tutto l’uomo che permetta di affermare sempre come la nostra dimensione spirituale ha una preminenza su quella materiale.
L’umile veggente di Lourdes, santa Bernadette Soubirous, dava questa spiegazione: “Perché bisogna soffrire? Perché quaggiù l’Amore puro non esiste senza sofferenza”. La sofferenza ci purifica, ma anche ci dà il senso della nostra fragilità, che spesso preserva dagli eccessi che ci condurrebbero sicuramente in una vita di maggiore dissolutezza e peccato. È essere provati come l’oro nel crogiuolo. Per cercare di dare un senso alla sofferenza, cerchiamo di imparare ad affidarci.