Giordania, vaso di coccio in mezzo a islamici di ferro
Dopo la barbara esecuzione del pilota giordano, re Abdullah non ha atteso neppure un giorno per rispondere con l'esecuzione di due terroristi nelle sue carceri. Ma questa reazione, che risponde alla legge del taglione, è anche un segno di debolezza. La monarchia giordana ha infatti lasciato predicare islamici radicali e si trova a dover fronteggiare i vicini jihadisti.
Moaz al-Kasasbeh è l’ennesima vittima della barbarie dello Stato Islamico. Giordano, musulmano, ventisette anni. In alcune fotografie che circolano in rete viene ritratto sorridente accanto a quell’aereo che lo ha portato nelle fauci dello Stato Islamico, oppure sereno nel suo izar durante il pellegrinaggio alla Mecca.
Ha colpito sia la brutalità dell’esecuzione che lo ha visto bruciare vivo, sia il fatto che Moaz fosse un musulmano, non un cristiano, non un ebreo, non un occidentale. Eppure nell’ultimo numero di Dabiq, la rivista dello Stato Islamico, compariva un’intervista al “pilota crociato” i cui familiari descrivevano come un “musulmano sincero” mentre non si rendevano conto che “era un murtadd (apostata) criminale visto che era un militare al servizio del taghut (tiranno) giordano e faceva parte della crociata che aveva ucciso molti musulmani.” Quindi nella visione distorta e manichea dell’umanità professata dall’IS e dai suoi seguaci, il giovane pilota era considerato il traditore per eccellenza poiché musulmano al soldo di una coalizione di traditori e nemici dell’Allah dello Stato Islamico. È interessante rilevare che il monarca giordano “tiranno” e “apostata” a capo del Regno hashemita di Giordania vanta, al pari del re del Marocco, la discendenza diretta da Maometto
Durante l’intervista, il concetto di apostasia e crociata ricorrono più volte: “quali regimi arabi apostati prendono parte agli attacchi aerei crociati?”, “quali basi aeree sono utilizzate dagli apostati in questa crociata?”, “E i crociati che basi aeree usano?”, “Hai incontrato i crociati americani?” Moaz viene sempre indicato come Murtadd, l’apostata, e al termine dell’intervista quando gli viene domandato se sapesse che cosa avrebbe fatto di lui lo Stato Islamico risponde: “Sì… mi uccideranno.”
La freddezza e l’assurdità delle domande, le risposte – ovviamente modificate a uso mediatico – lasciano immaginare le sofferenze, i patimenti, la tortura psicologica che ha dovuto subire il giovane militare giordano, così come illustrano chiaramente la crudeltà, la disumanità e la barbarie dei suoi sequestratori.
Il governo giordano non ha fatto attendere una risposta e ha prontamente giustiziato l’irachena Sajida al-Rishawi - che era già stata condannata alla pena capitale in quanto responsabile di una serie di attentati nella capitale Amman nel 2005 - e l’iracheno Ziad Karbuli, affiliato ad Al Qaeda. È lecito comunque domandarsi se questa sia stata la reazione migliore da parte del monarca giordano che più volte, unitamente alla moglie Rania, si è fatto promotore di una visione moderata dell’islam. È stata una reazione dettata più dall’impulso piuttosto che dalla ragione? Oppure è stata la risposta di un sovrano debole che deve fare l’equilibrista per mantenere sotto controllo il paese? La Giordania è senza dubbio un paese che si trova tra l’incudine e il martello, che vorrebbe essere all’avanguardia nel professare un islam al passo con i tempi e con la modernità, ma che al contempo deve affrontare l’avanzata e la pressione dello Stato islamico ai suoi confini, tenere a bada le spinte islamiste al proprio interno e rendere conto alla coalizione anti-Stato islamico che spinge affinché il monarca giordano si mostri più intransigente con i Fratelli musulmani giordani.
D’altronde solo uno Stato debole può giustificare la decisione di qualche mese fa, del settembre 2014, di assolvere e rilasciare Abu Qatada - predicatore che pur avendo preso le distanze dalla galassia Al Qaeda ha continuato a professare l’ideologia jihadista - accusato di avere sostenuto gli attacchi terroristici contro i turisti in Giordania nel 2000. Abu Qatada non professa idee molto diverse da quelle di Abu Bakr al-Baghdadi, ma con molta probabilità il suo rilascio è stato un tentativo di placare il rivale numero uno dello Stato islamico. Purtroppo, come diceva Winston Churchill, “la persona accondiscendente è quella che nutre il coccodrillo nella speranza di essere mangiata per ultima.” Nonostante re Abdullah abbia dichiarato che l’uccisione di Moaz al-Kasasbeh è “un atto di terrorismo vigliacco da parte di un gruppo criminale che non ha nessun legame con l'islam” ed “è obbligo di tutti i cittadini di restare uniti", la reazione che ha visto rispondere alla morte con la morte, non solo rientra nella logica del taglione. Anche le dichiarazioni di Mamduh al-Amiri, portavoce dell’esercito, vanno in questa direzione: "Il sangue del martire non sarà stato versato invano e la vendetta sarà proporzionale a questa catastrofe che ha colpito tutti i giordani”.
La Giordania sembra puntare a gesti simbolici miranti a placare gli animi dei familiari e dei cittadini che iniziano a chiedere la presa di distanza dalla coalizione internazionale, ma ancora non ha né la forza né la possibilità di portare a compimento una vera rivoluzione nei propri rapporti con l’estremismo islamico, in primo luogo con i Fratelli musulmani che sono considerati “terroristi” dai principali alleati anti-IS, ma che sono quell’ago della bilancia che garantisce ad Abdullah la stabilità e al tempo stesso costringe la Giordania a mantenere le condanne per apostasia (seppur intelligentemente velate) e a porsi alla mercé di predicatori che professano un islam che è tutto fuorché moderato. Abdullah oggi ha scelto di appagare lo stomaco e l’onore ferito dei giordani, ma farebbe bene ad avere il coraggio di salvare le menti dei propri cittadini al fine di traghettarli verso quell’islam “moderno” di cui lui e sua moglie sono i simboli a livello internazionale. Solo così facendo riscatterà l’onore di Moaz perché solo così sradicherà quella ideologia che ne ha causato la tragica e prematura scomparsa.