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Gender follie: la scuola delle suore "mette" la gonna ai maschietti

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«La gonna è per tutti» e «cowboy con i tacchi a spillo». In una scuola di Rapallo gestita dalle Suore Somasche il gender entra attraverso un progetto di decostruzione degli stereotipi nell'uso di giochi unisex. Ma è proprio la diversità naturale che porta a scegliere anche giochi diversi. 

Educazione 29_06_2024

La luce di Cristo viene sempre più scissa nei colori arcobaleno dentro le istituzioni cattoliche. Siamo a Rapallo, Scuola San Girolamo gestita dalle suore Somasche, ma con dipendenti tutti laici. Nell’istituto troviamo il nido, la scuola per l’infanzia e le elementari. Quale posto migliore per colorare di arcobaleno le pagine bianche dei cuori e delle menti dei bambini?

L’associazione femminile Soroptimist International ha realizzato per gli alunni di tutte le classi delle elementari – circa un centinaio di studenti – un progetto per la decostruzione degli stereotipi di genere, come oggi si usa dire. Insomma per inculcare nelle verdissime anime dei bambini l’idea che uomo e donna sono così uguali che si possono vestire allo stesso modo e possono usare gli stessi giochi. La presidente del Tigullio di Soroptimist, nonché ginecologa, Laura Grimaldi spiega: «Abbiamo scelto il tema della parità di genere […] facendo confrontare i bambini con la psicologa Alice Garbarino, oltre che con le loro insegnanti».

E così ecco un disegno di un uomo con il kilt e sotto la scritta: «La gonna è per tutti». La strategia è furba: prendere ad esempio il kilt per dimostrare che anche gli uomini possono mettere la gonna. Ma l’obiezione è facilmente superabile: in Scozia quel particolare tipo di gonna – e non tutti i tipi di gonna – è un capo di abbigliamento fortemente maschile, in molti altri contesti culturali la gonna è capo di abbigliamento squisitamente femminile. È una convenzione e costrutto sociale? Sì, ma voluto per identificare la differenza uomo-donna, per marcare la loro appartenenza sessuale. Citando quindi il kilt ci si dà la zappa sui piedi, perché nel contesto culturale scozzese è un indumento esclusivamente maschile: il kilt esalta la mascolinità dell’uomo che lo indossa, non la deprime né la confuta. Un vero autogol, dunque. In Italia, di contro, la gonna è ancora indumento esclusivamente femminile. E perciò far indossare in Italia la gonna ad un uomo è un modo o per femminilizzarlo oppure per cancellare la differenza sessuale, non certo per esaltare la sua virilità.

Il Secolo XIX, nell’articolo A scuola giochi unisex, racconta che un altro disegno realizzato dai bambini è accompagnato dalla scritta «I Lego sono per tutti» e in un altro si può vedere un cowboy con tanto di tacchi. L’articolo ci informa che, nonostante questi disegni commissionati dai responsabili del progetto per dis-orientare gli alunni verso l’indifferenza sessuale, per questi bambini dalla dura cervice alcuni giochi e colori sono adatti ai maschi e altri alle femmine. Ma quando si chiede loro il motivo, non sanno rispondere. Il lettore è così incline a pensare che l’azzurro e il rosa e le pistole e la Barbie hanno una loro caratterizzazione sessuale solo perché stereotipi artificiosi calati dall’alto, costrutti patriarcali imposti per secoli, ma assolutamente arbitrari. Non ci sarebbe quindi una valida motivazione antropologica, incardinata nella natura dell’uomo, per spiegare l’attribuzione di colori e giochi a seconda del sesso, tanto è vero che i bambini, così facilmente influenzabili dagli stereotipi, non sanno spiegare perché le femmine si vestono di rosa e i maschi usano le pistole.

Rispondiamo in sintesi. In merito ai colori ripetiamo la spiegazione già fornita per il kilt: un certo portato culturale vuole giustamente assegnare ad alcuni colori un caratteristica riferita al sesso, questo per marcare l’identità sessuale maschile e femminile, perché grazie anche ai colori uomini e donne si possano identificare nel proprio sesso biologico e mostrarlo con soddisfazione agli altri. In tal modo una donna che userà il rosa si sentirà più donna ad esempio. Una convenzione maturata nei secoli, ma rispettosa della natura umana che si manifesta nella duplicità dei sessi. Un costrutto sociale, ma assolutamente in accordo all’identità sessuale delle persone. Quindi non tutte le consuetudini sono da rigettare, ma solo quelle contrarie alla dignità personale. Ed infine un distinguo importante: i colori sono una convenzione, ma il sesso non è una convenzione inventata dagli uomini, bensì una realtà che gli uomini devono riconoscere.

In merito ai giochi invece il riferimento deve essere alla diversa psicologia femminile e maschile, quindi alle diverse attitudini, sensibilità, orientamenti. L’uomo e la donna hanno diverse inclinazioni naturali proprio perché differenti non solo fisicamente, ma anche metafisicamente e dunque psicologicamente. La diversità naturale porta a scegliere anche giochi diversi. Diversità che, ovviamente, si fonda sull’identica dignità personale.

Veniamo infine al perchè i piccoli non sanno dare una spiegazione del fatto che ci siano colori differenti per maschietti e femminucce e giochi diversi a seconda del sesso del bambino. A tal proposito è sufficiente ricordare che l’incapacità di spiegare un fatto, non significa che il fatto sia necessariamente infondato. I bambini anche piccolissimi conoscono benissimo il principio di proprietà: sanno perfettamente quando una cosa è loro. E questo avviene per connaturalità. Il nome del formaggino Mio è una prova provata di questa asserzione. Però, tentate di farvi spiegare da un bambino di tre anni cosa sia la proprietà privata. Non saprà dirvi nulla. Ma la sua legittima ignoranza non cancella il fatto che esista la proprietà privata e che sin da piccolissimi riusciamo a riconoscerla.

Questo approccio femminista, che offre una splendida sponda alla teoria gender la quale predica, tra le altre cose, che l’identità sessuale deve lasciare il posto all’identità psicologica sessuale, ossia alla identità di genere – il sesso percepito è più importante del sesso biologico, tanto per intenderci – questo approccio, dicevamo, ha trovato terreno fertile laddove non avrebbe mai dovuto trovarlo, cioè in seno ad un istituto educativo retto da religiose. Ma, ahinoi, non ci stupiamo che sia accaduto. Il «Chi sono io per giudicare?» – frase pontificia volutamente ambigua perché non sappiamo se fosse riferita alla condizione omosessuale o alla responsabilità della persona omosessuale – ha figliato molte iniziative pastorali catto-gay ed infine Fiducia supplicans.

Cosa c’entra l’omosessualità con il progetto realizzato a Rapallo? C’entra eccome. Infatti l’omosessualità si poggia sull’implicito che la differenza sessuale è indifferente in tema di sentimenti e di eros. Maschio o femmina uguali sono. E dunque, viste tali premesse così autorevoli, cosa volete che sia, in una scuola cattolica, un corso per bambini ideato per seppellire la diversità sessuale sotto qualche metro cubo di inclusività e femminismo?