Fratelli e sorelle di Barack Obama
Promozione del matrimonio gay e ottimismo sulla fine delle guerre. Due passaggi del discorso di inizio mandato del presidente americano sono rivelatori delle priorità di Obama. Che sui gay fa opera di mistificazione e sulle guerre lascia la patata bollente all'Europa.
Negli ultimi due giorni molto si è detto e parlato del discorso con cui il presidente americano Barack Obama ha inaugurato il suo secondo mandato alla Casa Bianca, e certamente molti sono gli spunti che ha offerto. Ma su due vale la pena soffermarsi in particolare.
Il primo riguarda il passaggio del discorso, ripreso dalla maggior parte dei titoli dei giornali, in cui fa riferimento ai “fratelli e sorelle gay”. E’ la prima volta che un presidente affronta esplicitamente il tema in un discorso del genere, ma è bene rileggere l’intera frase: «Il nostro lavoro non sarà completo finche i nostri fratelli e le nostre sorelle gay non saranno trattati come chiunque altro in base alla legge»; per poi aggiungere: «Noi tutti uomini siamo creati uguali».
In questo modo Obama ha evocato il cammino di emancipazione dei neri d’America, il movimento dei diritti civili, proponendo una analogia tra la situazione degli omosessuali oggi e quella dei neri negli anni ’50 e ’60 del XX secolo. Così come oggi i neri hanno raggiunto l’uguaglianza, vuole dire Obama (e lui ne è un frutto), così dovremo fare anche per i gay. E’ sicuramente un’immagine destinata a fare presa sull’opinione pubblica, peccato si tratti di una grave mistificazione storica oltre che etica.
La situazione degli omosessuali oggi non è affatto paragonabile a quella dei neri, perché non c’è nessun diritto conculcato, nessuna forma di segregazione: avete mai sentito parlare di autobus negati a un gay o scuole solo per eterosessuali o quartieri gay-free? No, al contrario: mentre agli omosessuali in quanto tali – giustamente – non è proibito l’ingresso in alcun posto pubblico, è vero invece che ci sono molti locali .– soprattutto negli Stati Uniti – riservati esclusivamente ai gay. Ciò che vuole realizzare Obama, dunque, è il riconoscimento dei matrimoni tra persone dello stesso sesso; ma qui non c’entra l’uguaglianza davanti alla legge, tanto meno davanti a Dio.
Uguaglianza vuol dire infatti essere trattati allo stesso modo davanti a situazioni simili, senza fare distinzioni di sesso, razza, religione e così via (è ciò che stabilisce anche la nostra Costituzione all'articolo 3). Ma ciò che perseguono Obama e i suoi sponsor è l’opposto, ovvero la possibilità di trattare in modo uguale le persone davanti a situazioni oggettivamente differenti. E questo è un controsenso. Il matrimonio non è un diritto individuale, è una responsabilità che due persone liberamente si prendono davanti alla società ed è finalizzato alla generazione ed educazione dei figli. E’ questo il motivo per cui lo Stato si interessa della materia: non giudica quanto amore c’è fra due persone né se sono felici insieme, ma si preoccupa dei figli, di coloro che dovranno far vivere la società e garantirle stabilità e sviluppo.
Promuovere perciò il matrimonio fra persone dello stesso sesso è una sfida al buon senso, prima ancora che alla ragione. E’ come se il sottoscritto, che ha una pesante miopia e un peso che ne rallenta drasticamente la corsa, pretendesse in nome del principio di non discriminazione di essere ammesso a fare l’arbitro di calcio in serie A. Tutti penserebbero che è ridicolo e nessuno prenderebbe sul serio l’argomento – pur fondato - per cui non sfigurerei affatto a fianco di arbitri professionisti che non vedono palloni entrati in rete di un metro e che si trovano costantemente lontani dall’azione.
Ma chissà perché il senso del ridicolo evapora quando si parla di matrimoni gay. E’ chiaro che c’è qui una forte spinta ideologica, che ottenebra le menti e capovolge la realtà.
Il secondo passaggio interessante di Obama è quello riferito a guerra e sviluppo. «Un decennio di guerra sta finendo – ha detto -, la ripresa economica è cominciata, le possibilità degli Stati Uniti sono senza limiti». L’ottimismo del presidente americano sembra quasi voler ricreare l’atmosfera del 1960, quella che accompagnò l’inizio della presidenza di John Kennedy, quando la pace mondiale sembrava a portata di mano. Ma il discorso di Obama è molto più ristretto, ha come orizzonte gli Stati Uniti: non si riferisce all’avvento prossimo di una stabilità mondiale - anzi i segnali che arrivano dal Medio Oriente all’Africa fino all’Asia-Pacifico fanno temere piuttosto il contrario -, ma sancisce il disimpegno statunitense dai teatri di guerra.
Il motivo sta soprattutto nel fatto che – grazie allo sfruttamento di nuovi depositi petroliferi e alla ampia disponibilità di gas di scisto, che ha fatto abbassare in modo drastico i prezzi del gas naturale – gli Stati Uniti “vedono” l’indipendenza energetica, che potrebbe essere raggiunta in pochi anni. E siccome le guerre fatte in giro per il mondo hanno riguardato soprattutto la necessità di accedere a risorse energetiche a basso costo per alimentare l’economia americana, le motivazioni della strategia del ritiro sono evidenti. Ma se per gli Usa sta finendo il tempo della guerra – ammesso che le cose vadano come progettato da Obama – non così è per il resto del mondo. Anzi, per l’Europa saranno maggiori guai, perché si troverà sempre più a dover gestire situazioni di conflitto senza averne la voglia, né l’abitudine né la preparazione. E i disastri combinati nell’ultimo anno e mezzo nel Nord Africa e in Medio Oriente fino all’intervento di questi giorni in Mali sono lì a farci temere che il peggio debba ancora arrivare.
Obama, insomma, promette male, come del resto tutte le icone che la sinistra ha abbracciato in tutti questi decenni.