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PAPA A FIRENZE

Francesco indica la strada alla Chiesa italiana

«Un nuovo umanesimo? No, quello dei “sentimenti di Cristo Gesù”», come dice san Paolo. L’atteso discorso alla Chiesa italiana papa Francesco l’ha pronunciato ai piedi dell’Hecce homo nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze. E proprio dall’immedesimarsi nei «sentimenti di Cristo» Francesco indica il cammino.

Ecclesia 11_11_2015
L'arriva di papa Francesco in piazza Duomo a Firenze

Il 10 novembre 2015 Papa Francesco si è recato in pellegrinaggio apostolico a Prato e a Firenze. Al centro del viaggio ha posto l’incontro nella Cattedrale fiorentina di Santa Maria del Fiore con i partecipanti al V Convegno nazionale della Chiesa italiana, in cui ha evocato la saggezza concreta del Don Camillo di Guareschi contro le tentazioni astratte dei “pelagiani” e degli “gnostici”. Prima di recarsi a Firenze, il Papa ha incontrato il mondo del lavoro a Prato, una città simbolo della crisi economica. 

Qui ha denunciato «il cancro dello sfruttamento umano e lavorativo» – che si accompagna quasi sempre al «cancro della corruzione» – rievocando la tragedia di sette cinesi morti a Prato nell’incendio di un capannone dove lavoravano e dormivano. Il Papa ha visitato anche la reliquia della Sacra Cintola della Madonna, custodita a Prato, «segno di benedizione» per la città, ricordando che nella Sacra Scrittura «cingersi le vesti ai fianchi significa essere pronti, prepararsi a partire, a uscire per mettersi in cammino» e che «una fede che pensa a sé stessa e sta chiusa in casa non è fedele all’invito del Signore».

Nella cattedrale di Firenze, Francesco è partito dal volto di Gesù raffigurato nell’affresco del Giudizio Universale. È il volto «di un Dio “svuotato”, di un Dio che ha assunto la condizione di servo, umiliato e obbediente fino alla morte». «Se non ci abbassiamo non potremo vedere il suo volto. Non vedremo nulla della sua pienezza se non accettiamo che Dio si è svuotato. E quindi non capiremo nulla dell’umanesimo cristiano e le nostre parole saranno belle, colte, raffinate, ma non saranno parole di fede. Saranno parole che risuonano a vuoto». Il Papa ha presentato tre «sentimenti», necessari per vedere il volto di Cristo. Il primo è l’umiltà. «L’ossessione di preservare la propria gloria, la propria “dignità”, la propria influenza non deve far parte dei nostri sentimenti. Dobbiamo perseguire la gloria di Dio, e questa non coincide con la nostra». Il secondo è il disinteresse. «Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di sé stesso, allora non ha più posto per Dio». Il terzo è la beatitudine. «Il cristiano è un beato, ha in sé la gioia del Vangelo». «Le beatitudini che leggiamo nel Vangelo iniziano con una benedizione e terminano con una promessa di consolazione». Ma «per essere “beati”, per gustare la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, è necessario avere il cuore aperto. La beatitudine è una scommessa laboriosa, fatta di rinunce, ascolto e apprendimento, i cui frutti si raccolgono nel tempo».

Alla Chiesa italiana i tre tratti dell’umiltà, disinteresse e beatitudine «dicono che non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa». Ci dicono che «una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe triste». Oggi, ha aggiunto il Papa, la Chiesa italiana si trova di fronte a due tentazioni. Francesco probabilmente conosce le reazioni critiche che hanno accompagnato i suoi accenni in occasioni precedenti a uno schema che critica insieme “pelagiani” e “gnostici” – anche se si tratta di espressioni utilizzate già dal cardinale Joseph Ratzinger e dal filosofo di riferimento del futuro Benedetto XVI, Josef Pieper – e ha voluto ancora una volta precisare queste categorie. La tentazione «pelagiana», ha detto, «porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte» e «ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività. La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso». Criticando i «pelagiani», il Papa ha affermato di riferirsi a chi pone la sua fiducia nei «conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative».

All’estremo opposto si trova la tentazione dello «gnosticismo», «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti». Uno «spiritualismo gnostico» parte dal relativismo e finisce per ridurre il cristianesimo a una dimensione puramente umana e immanente. Già quando il Papa propose per la prima volta la duplice critica ai pelagiani e agli gnostici, nel corso del viaggio in Brasile del 2013, si sviluppò una discussione sulla pertinenza dei suoi riferimenti storici. Al di là della scelta dei termini, Francesco pensa che sia i conservatori “pelagiani” sia i progressisti “gnostici” si perdano nell’astrattezza che rischia sempre di diventare ideologia. 

È molto significativo che a Firenze a queste deviazioni il Papa abbia contrapposto la concretezza del Don Camillo di Guareschi. «Mi colpisce, ha detto, come nelle storie di Guareschi la preghiera di un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente. Di sé don Camillo diceva: “Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e sa ridere con loro”. Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte».

Come potranno fare i vescovi italiani per seguire l’esempio di don Camillo e non le astrazioni o le ideologie? La risposta, afferma il Papa, è semplice: «essere pastori» e farsi sostenere dal loro gregge. «Di recente, ha aggiunto, ho letto di un vescovo che raccontava che era in metrò all’ora di punta e c’era talmente tanta gente che non sapeva più dove mettere la mano per reggersi. Spinto a destra e a sinistra, si appoggiava alle persone per non cadere. E così ha pensato che, oltre la preghiera, quello che fa stare in piedi un vescovo, è la sua gente».

In concreto, il Papa ricorda l’opzione per i poveri, che implica anche la rinuncia a «ogni surrogato di potere, d’immagine, di denaro»; l’importanza della bellezza, annunciata da Firenze, «città della bellezza»; «la capacità di dialogo e di incontro» senza equivoci e sincretismi. «Dialogare non è negoziare»: «nel dialogo si dà il conflitto: è logico e prevedibile che sia così. E non dobbiamo temerlo né ignorarlo ma accettarlo». Il conflitto non si supera con il compromesso ma con l’amore. «Noi sappiamo che la migliore risposta alla conflittualità dell’essere umano del celebre homo homini lupus di Thomas Hobbes è l’'Ecce homo di Gesù che non recrimina, ma accoglie e, pagando di persona, salva».

«Non dobbiamo aver paura del dialogo: anzi è proprio il confronto e la critica che ci aiuta a preservare la teologia dal trasformarsi in ideologia». E spesso «il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà». Proprio perché il dialogo non è negoziato o compromesso, il Papa vuole che in Italia «la Chiesa sappia anche dare una risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico». Francesco ha invitato i cattolici italiani, soprattutto i giovani, a non avere paura dell’impegno politico, e le diocesi a «un approfondimento della “Evangelii gaudium”, per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni». Affidatevi tutti a Maria, ha concluso, e «credete al genio del cristianesimo italiano, che non è patrimonio né di singoli né di una élite, ma della comunità, del popolo di questo straordinario Paese».

Prima del saluto finale alla città, il Papa ha concluso la visita con la Messa allo Stadio Franchi. Nell’omelia, Francesco è partito dalla domanda che Gesù pone ai suoi discepoli: la gente chi dice che io sia? Sembra quasi che Gesù chieda ai discepoli un sondaggio. Ma al Signore «interessa quello che la gente pensa non per accontentarla, ma per poter comunicare con essa». Anche oggi, ha detto il Papa, «senza sapere quello che pensa la gente, il discepolo si isola e inizia a giudicare la gente secondo i propri pensieri e le proprie convinzioni». Naturalmente, non si tratta di accettare acriticamente l’opinione della «gente» ma di «aiutare, formare e comunicare», annunciando il vero Gesù e «non una sua immagine distorta dalle filosofie e dalle ideologie del tempo».

Da una parte i cristiani «non devono mai cadere nella tentazione di assumere atteggiamenti distaccati, come se ciò che la gente pensa e vive non li riguardasse e non fosse per loro importante». Dall’altra, il cristiano annuncia la verità anche se è diversa dalle opinioni della maggioranza. «Solo se riconosciamo Gesù nella Sua verità, saremo in grado di guardare la verità della nostra condizione umana, e potremo portare il nostro contributo alla piena umanizzazione della società. Custodire e annunciare la retta fede in Gesù Cristo è il cuore della nostra identità cristiana».

Al Papa in particolare, ha detto Francesco, spetta «custodire e proclamare la verità della fede; difendere e promuovere la comunione tra tutte le Chiese; conservare la disciplina della Chiesa». Qualche volta, per fare questo, occorre «andare controcorrente» e «superare l’opinione corrente, che, oggi come allora», ai tempi del Vangelo, «non riesce a vedere in Gesù più che un profeta o un maestro». Cristo non è un semplice maestro umano, è Dio. Dobbiamo proclamare senza paura «questa verità della fede [che] è verità che scandalizza, perché chiede di credere in un Dio che si è abbassato fino alla morte di croce». E il Papa ha concluso che «non può esserci vera sapienza se non nel legame a Cristo e nel servizio alla Chiesa».