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Nuovi diritti

Fivet, quando il sessismo è anche nelle linee guida

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Pubblicate le nuove linee guida della legge 40 che recepiscono le sentenze della Consulta. In perfetto stile femminista, anche se si parla di fecondazione artificiale, il consenso della donna vale più di quello dell’uomo.

Editoriali 11_05_2024

Il Ministero della Salute ha pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 9 maggio scorso le nuove Linee guida della legge 40/2004, norma che ha legalizzato nel nostro Paese le pratiche di fecondazione artificiale.

Queste ultime ovviamente recepiscono le prescrizioni della Corte costituzionale che, negli ultimi anni, ha demolito l’impianto originario della legge 40: accesso a coppie anche fertili ma portatrici di alcune malattie genetiche o infettive; legittimità del ricorso all’eterologa; selezione degli embrioni – esclusa invero dall’art. 13 – qualora l’embrione sia affetto da patologie genetiche e si ricada nei casi previsti dall’art. 6 della legge 194; superamento del limite di tre embrioni da prodursi per ogni ciclo.

Ma soffermiamoci sul paragrafo V, dal titolo “Consenso informato (art. 6, legge 40/2004)”, delle Linee guida, laddove queste recepiscono le sentenze della Corte Costituzionale n. 229/2015 e n. 161/2023 (qui un nostro approfondimento). Partiamo dalla prima: «La volontà può essere revocata da ciascuno dei soggetti indicati dal comma 3 dell’art. 6 della legge n. 40/2004 fino al momento della fecondazione dell’ovulo o in caso di diagnosi genetica preimpianto fino al momento del transfer. La volontà al trasferimento dell’embrione in utero, stante quanto previsto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 229 del 2015, può essere revocata da entrambi i soggetti indicati dal comma 3 dell’art. 6 della legge n. 40/2004 in qualunque momento quando sia stata applicata una tecnica di diagnosi preimpianto che abbia diagnosticato una patologia dell’embrione rispondente ai criteri di gravità di cui all’ art. 6, comma 1, lettera b) della legge 22 maggio 1978, n. 194 […] e accertate da apposite strutture pubbliche o private autorizzate».

Dunque, la legge 40 prescrive quanto segue: il consenso alla procedura può essere revocato da entrambi i membri della coppia finché non c’è stato il concepimento. Trattasi, secondo la legge, di un’assunzione di responsabilità. Venuto ad esistenza il bambino, dovete prendervene cura. Rimane però il fatto contraddittorio che, una volta impiantato l’embrione nell’utero della donna, questa può sempre decidere di abortire. Torniamo al divieto di revoca del consenso dopo il concepimento. Questo divieto incontra un’eccezione: qualora tramite una diagnosi pre-impianto si scoprisse qualche malformazione dell’embrione, ciascun membro della coppia potrebbe rifiutarsi di diventare genitore di quel bambino e quindi non si procederebbe all’impianto in utero. Insomma l’embrione potrebbe incappare nell’aborto o, ancor prima, nella selezione eugenetica pre-impianto.

Passiamo alla seconda sentenza sopra citata, quella del 2023: «Ai richiedenti […] deve essere rappresentato che, dopo la fecondazione assistita dell’ovulo, il consenso alla P.M.A. non può essere revocato e la donna può richiedere l’impianto dell’embrione anche se il partner sia deceduto (Cass., 15 maggio 2019, n. 13000) ovvero sia cessato il loro rapporto (Corte costituzionale, n. 161/2023)». Quest’ultima eventualità si verifica quando, tra produzione-congelamento dell’embrione e impianto, la coppia si separa. Che fare se la donna vuole l’impianto e l’uomo no? Prevale la volontà della donna.

Si tratta dell’applicazione a questo caso specifico del principio, già prima indicato, contenuto nel comma 3 dell’art. 6 della legge 40, che così dispone: «La volontà può essere revocata da ciascuno dei soggetti indicati dal presente comma fino al momento della fecondazione dell’ovulo». La fecondazione c’è già stata e quindi nessuno dei due può più revocare il consenso, compreso l’uomo che, volente o nolente, diventerà padre di quel bambino, eccetto nel caso, appena visto, in cui ci sia qualche malformazione dell’embrione.

Sugli aspetti morali di questa situazione ci eravamo già soffermati in precedenza. Ricordiamo qui solo alcuni snodi giuridici su cui si fonda la sentenza del 2023 e la relativa indicazione delle Linee guida. Il padre ha l’obbligo giuridico di riconoscere il figlio nato (nelle coppie sposate vale la presunzione di paternità) oppure può disconoscerlo se ritiene che non sia lui il padre biologico. La donna, al fine di evitare che scelga la soluzione dell’aborto, invece può non riconoscerlo. L’obbligo paterno di riconoscimento del figlio nato è stato dunque declinato per il figlio concepito laddove si vieta la revoca del consenso (cfr. comma 3 art. 6): dal punto di vista giuridico è una chiamata alla responsabilità genitoriale. Hai voluto un figlio tramite provetta? Ora che c’è, te ne prendi cura. Dunque, stante il consenso della donna, non ci può essere il dissenso dell’uomo. Qualora invece la donna non voglia l’impianto, quest’ultima naturalmente potrà rifiutarlo perché trattasi sempre di trattamento sanitario sottoposto alla disciplina del consenso informato. Dunque, il divieto di revoca del consenso da parte della donna ha i piedi d’argilla.

Per la Corte un secondo motivo per negare la revoca del consenso da parte del padre si rinviene nel rispetto della dignità dell’embrione: motivazione contraddittoria. Se la Corte e ancor prima i legislatori avessero avuto davvero a cuore la dignità del nascituro avrebbero vietato le stesse tecniche di fecondazione extracorporea.

Ma c’è una terza motivazione, espressa dalla Consulta e quindi sposata dalle Linee guida, che spinge a non tener conto della volontà del padre: l’autodeterminazione della donna che vince sull’autodeterminazione dell’uomo. La donna deve avere l’ultima parola per due ragioni. In primis perché è lei, e molto meno l’uomo, ad essere coinvolta fisicamente e psicologicamente nella fecondazione in provetta. È lo stesso principio sotteso alla 194: è la donna l’unica a decidere se tenere o no il bambino perché è lei che porta avanti la gravidanza. In secondo luogo il maschio può teoricamente diventare padre anche in là negli anni, non così la donna. Potrebbe accadere che quell’embrione crioconservato sia l’ultima occasione per diventare madre: un rifiuto da parte del padre potrebbe quindi farle perdere l’ultima chance di avere un figlio.

Le Linee guida non potevano che recepire questo orientamento alla fine sessista e femminista: la filiazione, sia quella naturale che artificiale, è più affare delle donne che degli uomini e quindi spetta alle prime il diritto di vita e di morte sul figlio, che però rimane figlio di entrambi.



LA SENTENZA

La Fivet, il padre e l’embrione: quanto femminismo nella Consulta

Secondo la Corte Costituzionale è irrevocabile il consenso alla Pma dato dal padre una volta che l’ovulo è fecondato. Il fulcro della sentenza non sta nella dignità dell’embrione, bensì nell’autodeterminazione della donna.