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L'ANALISI

Expo 2015, sarà il festival dei luoghi comuni

Nel "Patto Globale per il Cibo" si trovano argomenti frutto di ignoranza della materia. Censurato il dibattito sugli OGM e le biotecnologie, centrali per la lotta alla malnutrizione,esaltazione del biologico, malgrado non sia in grado di tutelare l'ambiente. Ecco le dieci priorità vere. Che non trovano spazio nell'Expo 2015.

Creato 29_09_2014
Expo 2015

È auspicio comune che l'Expo Milano 2015 si riveli non solo un’occasione per il rilancio economico del nostro Paese ma anche un’opportunità per lanciare un messaggio culturale sui grandi temi della produzione del cibo e della sicurezza alimentare. Con riferimento a quest’ultimo obiettivo, il Barilla Center for Food and Nutrition (BCFN) ha lanciato da tempo l’interessante idea di un “patto globale per il cibo” (alias “Protocollo di Milano”) che dovrebbe essere idealmente sottoscritto da tutti i paesi del mondo. In tal senso BCNF ha redatto un documento di lavoro preliminare (clicca qui) che è centrato su tre macro temi (o macro impegni) legati allo spreco di alimenti, all’agricoltura sostenibile ed agli stili di vita sani. Si deve anche dire che il “Patto globale per il cibo” è stato discusso il 29 maggio 2014 in un convegno ISPI tenutosi a Milano ed ha poi ispirato un dibattito svoltosi al Senato e tradottosi in data 18 giugno 2014 nell’approvazione di una mozione PD.

Come tecnico del settore confesso di far fatica a percepire i temi espressi nella mozione approvata in Senato come realmente centrali rispetto al tema della sicurezza alimentare. In particolare occorre anzitutto considerare che la mozione approvata dal Senato non riporta in premessa alcuna seria analisi quantitativa sui temi che affronta, il che è in aperto contrasto con l’idea che occorra conoscere la realtà dal punto vista quantitativo se si vuol poi agire per riformarla.

Ad esempio la mozione parla di «produzione agricola responsabile, negli ultimi decenni, della perdita di interi ecosistemi attraverso un processo incessante di deforestazione», dimostrando così di non cogliere il macroscopico fenomeno per cui è proprio l’agricoltura intensiva ad aver consentito alle foreste di riappropriarsi di svariati areali a livello globale. Ad esempio in Italia la superficie a bosco è passata dai 4,5 milioni di ettari del 1910 ai 6,9 milioni del 2000, con un aumento del 55% in 90 anni perché le aree agricole più marginali sono state lasciate al bosco da agricoltori stanchi di sputar sangue in collina e montagna. Inoltre, secondo i dati riportati da Rautiainen e altri sulla rivista internazionale Plos-one, nel periodo 1990-2010 le foreste sono risultate in crescita del 5% in Europa e del 2% in Asia mentre sono state stazionarie in Nord America e sono decresciute dell’8% in Africa e Sud America (e qui si osservi che il decremento delle aree boscate ha luogo in Africa ove dominano le forme di sfruttamento agricolo e silvo-pastorale più arcaiche del pianeta).

Inoltre il nostro Senato non si è reso conto che la percentuale di popolazione mondiale afflitta da insicurezza alimentare è in costante calo da circa 50 anni, tant’è vero che quest’anno la Fao ha potuto annunciare che tale percentuale è scesa all’11% della popolazione mondiale contro il 30% circa dei primi anni 70 (clicca qui). Tale successo lo dobbiamo all’agricoltura intensiva, quella cioè che ricorre a varietà evolute, ottenute utilizzando tecnologie innovative comprese quelle dell’ingegneria genetica (la superficie investita ad OGM nel 2012 è stata pari a 174 milioni di ettari, in cui ricadono il 32% della superficie mondiale a mais ed il 79% di quella a soia). 

Sugli OGM un dibattito serio legato al “Patto globale per il cibo” dovrebbe quantomeno cogliere il semplicissimo fatto che con la genetica tradizionale si lavorava “alla cieca”, utilizzavano incroci che trasferivano anche fra specie diverse milioni di geni, senza rendersi conto in alcun modo di cosa si stesse facendo. Oggi invece con le biotecnologie è possibile trasferire da una specie/varietà ad un’altra solo il gene/i geni che siamo interessati a trasferire in quanto conferiscono ad esempio specifiche proprietà nutrizionali ovvero la resistenza a particolari malattie. Perché rifiutare queste nuove opportunità tecnologiche che la scienza ci offre e che appaiono estremamente più sicure rispetto alle tecniche di miglioramento genetico tradizionale? Tale rifiuto preconcetto è di un’ottusità madornale e proprio Expo (ed il “patto globale per il cibo”) dovrebbe mirare a far chiarezza dissipando le nebbie di un oscurantismo cavalcato da troppi, specie a sinistra.

Mi domando poi come si faccia a proporre il biologico all’interno del “patto per il cibo” come tecnologia in grado di tutelare l’ambiente e garantire sicurezza alimentare, come ha fatto il nostro Senato con la frase «sull'agricoltura sostenibile impegna il governo a definire pratiche innovative che utilizzino alte tecnologie, metodi indicati dalle coltivazioni biologiche, sistemi agricoli di precisione, anche al fine di un utilizzo oculato delle risorse idriche, ad esempio il cosiddetto "more crop per drop" ovvero "più raccolto per ciascuna goccia”», frase che costituisce una magnifica “cartina di tornasole” circa il deficit di cultura agronomica che caratterizza la mozione approvata. Possibile che non ci si renda conto del fatto che il biologico ha un minore impatto ambientale solo perché produce quantità di cibo sensibilmente inferiori a quelle garantite dall’agricoltura convenzionale? Possibile che non si colga che il biologico non è necessariamente più sano in quanto l’agricoltura convenzionale usa i fitofarmaci per contenere funghi vettori di tossine dannose alla salute umana? Possibile che non ci si accorga che il biologico fa ricorso a montagne di rame per contrastare malattie (esempio: la peronospora della vite) che senza il mezzo chimico non sarebbe in grado di contenere? 

Altro tema su cui insiste la mozione del Senato è quello della speculazione finanziaria sul cibo, spesso spinta dall’uso per scopi energetici di quelle che dovrebbero essere derrate alimentari. Da questo punto di vista val la pena di ricordare che l’intensificazione dell’agricoltura potrebbe risolvere contemporaneamente i bisogni di cibo e quelli di beni di consumo (biocarburanti inclusi). Ma un’agricoltura molto più produttiva comporta che si abbia fiducia nella tecnologia, e la fiducia nella tecnologia è oggi merce sempre più rara in Italia ed in Europa. 

Dice un vecchio adagio che “chi è in mare naviga e chi è a terra critica” e dunque, non volendo essere io tacciato di critica gratuita, elencherò qui di seguito le priorità che dovrebbero esser comprese in un patto globale per il cibo che sia davvero degno di questo nome:

1. promuovere l’innovazione tecnologica nel campo delle agrotecniche (tecniche di lavorazione del suolo, tecniche di concimazione, tecniche irrigue, tecniche di difesa antiparassitaria, tecniche di diserbo, tecniche di conservazione e trasformazione dei prodotti) e della genetica (miglioramento genetico dei vegetali fatto ricorrendo alle migliori biotecnologie oggi disponibili, OGM inclusi). Per compiere una tale scelta non occorre far altro che seguire l’esempio della rivoluzione verde, che in un secolo ha sestuplicato la produzione agraria a fronte di un aumento di 4 volte delle popolazione mondiale;

2. promuovere l’innovazione tecnologica nel settore zootecnico in modo da ridurre l’impatto ambientale ed aumentare l’efficienza della trasformazione degli alimenti in prodotto finale (carne, latte, lana, ecc.). Non deve sfuggire infatti che in zootecnia è oggi in atto una vera e propria rivoluzione tecnologica che dev’essere in ogni modo favorita e che mira a ridurre la quantità di alimento necessario per produrre un kg di latte o di carne. Ciò spiega anche il fatto che negli ultimi anni la crescita nel numero di capi allevati interessa soprattutto i suini ed il pollame, specie nettamente più efficienti rispetto ai bovini;

3. promuovere la diffusione a livello globale dell’agricoltura tecnologicamente evoluta con iniziative di promozione, divulgazione e consulenza tecnica da avviare sia nei Paesi ad agricoltura più arretrata sia nelle sacche di arretratezza che sono tutt’ora presenti in tutte le agricolture del mondo;

4. valorizzare le industrie (nazionali o multinazionali che siano) della filiera a monte (industria sementiera, dei mezzi meccanici, dei fitofarmaci, dei concimi, ecc.,) come entità in grado di produrre e diffondere innovazione tecnologica in agricoltura, fissando alcune regole di base per far sì che gli obiettivi delle aziende siano perseguiti nel pieno rispetto dell’interesse generale; 

5. finanziare adeguatamente la ricerca pubblica per sviluppare i settori che il privato non ha interesse economico a promuovere. Ad esempio la ricerca pubblica nell’ambito dell’ingegneria genetica potrebbe trasferire in piante come il frumento o il mais la capacità di fissare l’azoto atmosferico, consentendo enormi risparmi in concimi chimici, oppure introdurre le resistenze alla siccità, al salino, al freddo o le resistenze a malattie atte a ridurre l’uso di fitofarmaci o ancora conferire alle piante coltivate una maggiore efficienza nell’uso delle risorse idriche;

6. utilizzare di più e meglio l’agricoltura per il suo scopo fondante che è da sempre quello di gestire il ciclo del carbonio e dunque anche per regolare i livelli di CO2 atmosferici. In tal senso gioverebbe riflettere sul fatto che un ettaro di mais allo “stato dell’arte” produce 14 tonnellate di granella e per far ciò assorbe una quantità enorme di CO2 (ben 41 tonnellate); e qui lascio al lettore ragionare su cosa tutto ciò significhi in un mondo in cui si coltivano 177 milioni di ettari di mais. Un’agricoltura veramente innovativa potrebbe in pochi anni raddoppiare le rese del mais (e del frumento, e del riso e dalla canna da zucchero,..) e destinare il surplus rispetto al fabbisogno alimentare a rifornire le filiere che oggi dipendono dal fossile (materie plastiche, combustibili, medicinali, ecc.);

7. tutelare i suoli agricoli dall’urbanizzazione o dall’erosione o ancora dall’espansione del bosco. Oggi infatti l’agricoltura si svolge su 1,4 miliardi di ettari di arativi (grossomodo 0,2 ettari per persona) e 3 miliardi di ettari di pascoli, per cui fermare la perdita di terreno agrario è una priorità assoluta per garantire in futuro la sicurezza alimentare globale;

8. favorire una politica globale di gestione delle risorse idriche favorevole alla produzione agricola. Oggi infatti sono irrigui circa 311 milioni di ettari e su questi si produce una buona fetta del cibo e dei beni di consumo. Una politica espansiva dell’agricoltura irrigua è fra le opzioni oggi sul tappeto, un’opzione che se realizzata potrebbe anche contribuire a mitigare le temperature globali aumentando la cessione superficiale di energia in forma di calore latente;

9. promuovere da un lato le politiche di contrasto all’accaparramento delle terre (land grabbing) nel paesi in via di sviluppo e dall’altro le politiche di promozione di strutture fondiarie aziendali di dimensioni compatibili con l’agricoltura di mercato ed adeguate a garantire la compatibilità economica ed ambientale dell’agricoltura. In tal senso non deve sfuggire che agricolture tecnologicamente obsolete possono presentare impatti ambientali ben più rilevanti rispetto all’agricoltura industriale (ad esempio, come evidenzia Capper in un suo scritto del 2007, una zootecnia da latte basata su vacche che producono 10 kg di latte al giorno ha un impatto ambientale triplo rispetto a quello di una zootecnia basata su vacche che di kg ne producono 30);

10. promuovere l’innovazione tecnologica nei settori della trasformazione, conservazione e commercializzazione dei prodotti agro-alimentari fino al consumatore finale. Tale aspetto sarà in futuro sempre più critico al crescere della quota di popolazione mondiale che vive in aree urbane, quota che già oggi supera il 50% della popolazione mondiale. Solo una logistica efficiente può infatti garantire la sicurezza alimentare all’interno di megalopoli che in sempre più casi superano i 10 milioni di abitanti.

A tale decalogo occorrerà ovviamente affiancare sia l’adozione di strategie che limitino le oscillazioni dei prezzi delle grandi commodities (frumento, mais, riso, ecc.) sul mercato mondiale sia un’azione informativa capillare volta alla diffusione di una cultura razionale dell’alimentazione fra le diverse fasce della popolazione. 

Quello qui presentato è solo un primo elenco di tematiche rispetto alle quali sarebbe opportuna una riflessione in ambito Expo 2015. Non nascondo tuttavia di nutrire non pochi dubbi circa il fatto che tali argomenti siano passibili di discussione perché il contesto dell’Expo è dominato da un filone culturale (di cui sono ad esempio espressione Carlo Petrini e Vandana Shiva) ideologicamente contrario all’innovazione tecnologica in agricoltura. Non deve sfuggire inoltre che molte delle azioni che ho posto in evidenza nel mio decalogo richiedono investimenti. Un esempio per tutti: per calare nel concreto della realtà italiana lo slogan "more crop per drop" sarebbe necessario agire con piani d’investimento a livello aziendale e di reti irrigue consortili in modo tale da promuovere il passaggio dall’irrigazione per scorrimento (efficienza media: 30-40%) all’irrigazione per aspersione (efficienza media: 60-70%) e/o alla micro-irrigazione (efficienza media: 80-90%). Ed è proprio qui che purtroppo casca l’asino: paesi come l’Italia non possono oggi permettersi investimenti di questo tipo, il che si traduce nel rischio concreto che il “Protocollo di Milano” si riveli un contenitore pieno di slogan e di vaghe affermazioni di principio che non “pescano sul fondo” della realtà produttiva nazionale, europea e globale.