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LA RIFLESSIONE

Essere pronti alla morte (per gustare l’eternità)

Sempre meno italiani credono nell’Aldilà, forse perché si crede sempre più nell’Aldiquà e nel godere terreno. Ma il nostro tempo quaggiù è limitato e quel che facciamo, oggi, è come uno stampo colmato con pene o meriti dal valore eterno. E i nostri cari defunti ci ricordano un insegnamento di Gesù nel Vangelo.

Ecclesia 02_11_2021

Cari noi tutti viventi, guardiamo in questo momento l’orologio che abbiamo al polso. Osserviamo la lancetta dei secondi. Quel ticchettio impercettibile crea un’eco enorme nell’Aldilà perché ogni secondo, come i capelli del nostro capo, è contato da Nostro Signore, ogni secondo è un debito da restituire a Dio. Ogni secondo poi è un passo, corto come un respiro, verso la morte, per superare il confine tra il finito e l’infinito, tra il precario e l’eternità. L’ultranovantenne Piero Angela di recente ha detto che la morte è come una mitragliatrice: più invecchiamo più ci avviciniamo ad essa. Immagine efficace che spaventa solo i pacifisti.

Siamo in fondo persuasi che questo gioco continuerà all’infinito, forse perché crediamo che il tempo, come le lancette dell’orologio, giri in modo circolare e inizi il suo moto laddove finisce. Invece il tempo è una linea, più o meno retta, che nasce in un punto e muore in altro. “Io sono l’alfa e l’omega” dice il Signore. E anche coloro i quali danzano in tondo non si sono accorti che lo fanno a bordo di una nave che viaggia in modo retto e spedito in direzione di un’enorme cascata.

Sempre meno italiani credono nell’Aldilà, forse perché si crede sempre più nell’Aldiquà. Ogni secondo allora deve essere impiegato per godere, non solo e banalmente dei piaceri fisici, ma anche del potere, dell’Io, degli affetti, della stima. Tutto vogliamo consumare qui perché persuasi che nulla si potrà mettere in valigia una volta che avremo chiuso gli occhi per sempre. E invece tutto ciò che abbiamo fatto in questa piccola aiuola chiamata vita crea un’orma anche là, dove sono i più. Anzi è vero l’opposto: qui forgiamo uno stampo che verrà colmato con pene o meriti a seconda di quanto lunga e nera sarà stata la nostra ombra proiettata su questa terra. Per gli antichi Egizi si poteva vivere eternamente solo se il cuore, al momento del giudizio dopo la morte, pesava quanto una piuma di struzzo. Erano nel giusto, però per fortuna poi venne Cristo ad alleggerire questo nostro cuore di pietra che senza la sua misericordia sarebbe stata la lapide da porre sopra la nostra tomba.

Festeggiamo ogni anno, in un giorno preciso, il nostro compleanno. Senza saperlo però ogni anno viviamo anche quel giorno che sarà il nostro dies natalis nell’eternità. Un compleanno anticipato, a priori, potremmo definirlo, per ricordarci che in quel giorno potremo venire nuovamente alla luce oppure all’oscurità. Se il bambino nasce dopo nove mesi in cui si è “preparato” per il suo ingresso nel mondo, noi abbiamo a disposizione un tempo variabile - in genere più lungo di nove mesi - per prepararci al nostro ingresso nel mondo ultraterreno. Ma questo, ormai, è diventato solo un pensiero elitario proprio perché, diciamo la verità, sappiamo che dovremo morire prima o poi, ma di certo non oggi. E, dato che viviamo solo l’oggi, l’eternità è una condizione che già possiamo sperimentare ora, seppur in modo fallace. Non potendo ingannare la morte, inganniamo noi stessi.

Cari viventi, guardiamo l’orologio, lo scorrere del tempo che è la vita in movimento, quella vita che fugge e sfugge “et non s’arresta una hora”. Guardiamo l’orologio, ma ascoltiamo in questi giorni cimiteriali il sussurro dei nostri cari che, quasi sibilando, ci ricordano: “Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora” (Mt 25,13).