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I RISULTATI

Inchiesta sulla fede in Italia, una paziente comatosa

Pubblicati i dati di una ricerca del 2017-2019 commissionata dalla Cei e basata su 3238 questionari. La frequenza settimanale alla Messa è del 22% (era il 31% nel ’95), quasi il 20% non crede nella vita dopo la morte e il 26,5% si dice cattolico “ma a modo mio”. La presa di distanza è soprattutto sulla morale, segno di una fede nel dubbio che ha fatto scuola. Ma invertire la rotta si può.

Ecclesia 29_10_2021

La paziente è comatosa. Stiamo parlando della fede. La Conferenza episcopale italiana ha commissionato una ricerca sullo stato di salute delle fede in Italia. Ne è uscito un corposo volume dal titolo “L’incerta fede. Un’indagine quanti-qualitativa in Italia” curato dal sociologo Roberto Cipriani, docente emerito dell’Università Roma Tre.

La cartella clinica è la seguente. La ricerca, iniziata nel 2017 e terminata nel 2019, mette a confronto i dati attuali, provenienti da 3238 questionari, con quelli di una ricerca simile denominata “La religiosità in Italia” i cui risultati furono diffusi prima dell’inizio del Convegno ecclesiale di Palermo del 1995. Partiamo dalla frequenza settimanale alla Santa Messa: siamo passati dal 31,1% al 22%. In circa 25 anni un calo di quasi dieci punti percentuali. Senza contare che la pandemia ha sicuramente assottigliato ancor di più la partecipazione alla funzione domenicale. Inoltre, solo il 14% si accosta alla Comunione una volta alla settimana. Andiamo avanti. C’è vita dopo la morte? Quasi una persona su cinque (19,5%) nega questa possibilità; 25 anni fa era una persona su dieci. Cifra quindi raddoppiata.

Proseguiamo: il 35% afferma di appartenere ad una chiesa o ad una confessione religiosa. Però sia costoro sia coloro che non si riconoscono in nessuna chiesa sono assai critici verso le istituzioni religiose, seppur Papa Francesco piaccia ad un 70% degli intervistati, più apprezzato però per il suo impegno sociale che per la sua figura spirituale. Da sottolineare anche che la maggioranza delle persone (55,6%) ritiene che con le sue posizioni il Pontefice “crea sconcerto e divisione all’interno della Chiesa”, ma una divisione positiva per l’80% del campione se ad esempio si parla di divorziati e persone omosessuali.

La presa di distanza dalle istituzioni avviene soprattutto nel campo della morale. Bella scoperta: nessuno mai è sceso in piazza criticando il dogma della Santissima Trinità e protestando per il fatto che sia una contraddizione evidente (un Dio uno e trino), a uno sguardo solo umano; ma moltissimi sono scesi in piazza rivendicando per sé la possibilità di divorziare, abortire, avere figli in provetta, accedere all’eutanasia, unirsi in “matrimonio” con una persona dello stesso sesso, etc.

La fede cattolica non viene in realtà messa in discussione perché, così si crede erroneamente, non tocca la mia esistenza: che Maria sia o no vergine non influisce sulla mia vita. Il divieto di abortire o di usare la contraccezione invece interessa eccome la mia vita. Il giudizio quindi della Chiesa su queste tematiche diventa, ovviamente, giudizio sulla vita delle persone e questo infastidisce assai. Peculiare a questo proposito il giudizio di favore verso l’eutanasia: il 62,7% del campione dice “sì” all’eutanasia. Solo uno su cinque è contrario. Nel 1995 i contrari erano la maggioranza, con il 42,7% e i favorevoli solo il 22,5%. Esiste quindi uno scollamento tra Chiesa e persone nella morale, ma ciò deriva dallo scollamento tra Chiesa e persone nella fede. Persa la fede si perde la morale. Solo un popolo cattolico potrà un giorno opporsi ad aborto, eutanasia, etc.

Monsignor Nunzio Galantino, presidente dell’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica, che era segretario generale della Cei quando l’indagine iniziò a muovere i primi passi, ha commentato così questo dato in occasione della presentazione del volume presso l’Università Roma Tre il 26 ottobre scorso: siamo approdati ad “un vuoto morale che coincide sempre più con il culto dell’individualità. Qualsiasi comportamento personale viene presentato come espressione di libertà”, ma questo denota “una sorta di narcisismo postmoderno”, tipico “di una generazione infantile”. Ecco allora una chiave di lettura per interpretare un altro dato: il 26% del campione prega. Quindi ci sono più persone che pregano di quante vadano a Messa. Il dato paradossale si può forse spiegare con il fatto che non si tratta, nella maggioranza dei casi, della preghiera cristiana, ma di un soliloquio o con la propria anima o con un Dio costruito ad immagine e somiglianza di sé.

Se il credito verso le istituzioni religiose scema, l’indagine mette in evidenza che invece il favore verso alcuni valori aumenta, tanto che la ricerca parla di “religione dei valori”. In ordine di importanza abbiamo: famiglia, giustizia, solidarietà, accoglienza, condivisione. Più distanti troviamo: lavoro, amicizia, amore, educazione, cultura, tradizione, religiosità, devozione, libertà. Curioso, la libertà arranca nelle ultime posizioni. Non crediamo perché abbia poco peso, ma perché tutti sono sazi di libertà tanto che non ci si bada nemmeno più. Chi metterebbe al primo posto come bene naturale l’aria che respiriamo?

Torniamo a questa “religione dei valori”. Di primo acchito potrebbe essere una buona notizia, tutto sommato. Non si crede più nella Chiesa e nei sacramenti, però almeno si crede in alcuni principi. Ma il problema è comprendere cosa intenda il sig. Rossi per famiglia, giustizia, solidarietà, condivisione, etc. Il filosofo Thomas Hobbes (1588-1679) ebbe a scrivere nel suo Leviatano: “Bene e male sono nomi che significano i nostri appetiti e le nostre avversioni”. I valori e i disvalori allora sono scatole semantiche vuote - parole vuote - che riempiamo di significati a nostro piacimento. Ad esempio “famiglia” oggi può voler dire “famiglie arcobaleno” e quindi inneggiare a lei può significare abbracciare alcuni principi che, per paradosso, sono letali per l’istituto familiare stesso. “Solidarietà, condivisione, accoglienza” potrebbe voler dire accogliere non solo la persona omosessuale, ma anche la sua omosessualità. “Giustizia” potrebbe voler significare battersi per i cosiddetti diritti civili (aborto, eutanasia, divorzio, “matrimoni” gay etc.), ritenere giusto che la madre possa levare la mano sul figlio nascente e così via.

La transizione, poi, da una religiosità istituzionale ad una personale mette in evidenza non solo una deriva individualista, ma la liquefazione della religiosità stessa al fine di adattarsi alle pretese e alle esigenze di ciascuno. La religione non è più il luogo dei doveri che ti portano a Dio, ma il luogo dei desideri che conducono a se stessi. Quindi tutto ciò che è obbligo, vincolo, limite, argine deve essere abbattuto a favore di una esondazione dell’Io che tutto travolge con la sua sete di piaceri, utilità, emozioni e sentimenti. Si pensa così erroneamente che la religione sia una gabbia formale di regole da cui evadere per vivere liberamente come si vuole in base a certi “valori” che nulla hanno di oggettivo, ma che sono solo la proiezione delle esigenze del soggetto, il precipitato di una visione solipsistica ed egocentrica dell’esistenza. È dunque, più che una religione dei valori, una religione dell’Io. Questo riguarda anche i cattolici: il 26,5% si definisce cattolico “ma a modo mio”, senza poi contare quelli che pensano di essere cattolici come Chiesa comanda, ma che in realtà sono anche loro cattolici a modo loro.

In merito a questa tendenza verso una religione informale, un po’ casual, il prof. Cipriani annota: “È una religiosità non più tanto formale, fatta di riti, di partecipazione alle celebrazioni, di presenza alla Messa domenicale, ma è una religiosità più riflessiva, più meditata e per questo diventa anche più problematica. Cioè sorgono i dubbi, non c’è più, almeno in linea di maggioranza, una fede bella, solida, senza difficoltà, senza dubbi”. Buona parte del nostro clero ha insistito per decenni sul dubbio nella fede che ormai siamo passati alla fede nel dubbio. L’unica verità è il dubbio. E procedendo da dubbio in dubbio è ovvio che poi il popolino, da bravo scolaro che ha imparato bene la lezione, abbia messo in dubbio lo stesso Magistero.

Dicevamo che la paziente, cioè la fede, era comatosa. Come fare a salvarla? I medici purtroppo non vogliono metterla in terapia intensiva e si affidano alla (mica tanto) vigile attesa. Ossia: stiamo alla finestra a guardare. A volte addirittura i medici stessi iniettano veleno nelle vene della paziente. Una soluzione invece potrebbe essere questa: ripartiamo dall’ABC. Sul piano spirituale: preghiera, sacramenti, sacrifici. Sul piano dell’azione: carità (in primis: ama il tuo nemico) e apostolato. Sul piano culturale: informazione e formazione di base sulla fede e morale ponendosi sulle frequenze d’onda dei nostri interlocutori. Magari, così facendo, in futuro qualche percentuale cambierà.