Esercitazione su Calvino
Analizziamo l’ansia del nuovo e il disprezzo per il passato che emerge dalla descrizione di Leonia (“Le città invisibili”, 1972). Quale connessione con quella che Ratzinger chiamerà “dittatura del relativismo”?
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Presentazione e commento di un testo
«Dittatura del relativismo». La seguente proposta di analisi non è concepita per la preparazione della prima prova scritta, che con certezza non sarà svolta quest’anno, ma in vista della prova orale. In una parte del colloquio lo studente dovrà commentare un testo poetico o in prosa affrontato durante l’anno scolastico.
Tra gli scrittori più letti nelle scuole italiane e tra i classici italiani più venduti nelle librerie. Italo Calvino è noto nella scuola primaria per le novelle (chi non ricorda la raccolta Marcovaldo) e nella scuola secondaria di primo grado per la trilogia degli antenati (Il cavaliere inesistente, Il visconte dimezzato o Il barone rampante) o per i due romanzi dedicati alla Seconda guerra mondiale e alla lotta partigiana (Il sentiero dei nidi di ragno e Ultimo viene il corvo).
La sua produzione sterminata è testimone di una vena di grande affabulatore, del vivo interesse per lo sperimentalismo nella narrazione, per i dibattiti aperti negli anni Cinquanta (La speculazione edilizia e La nuvola di smog), per le suggestioni dello strutturalismo e per il fascino del progresso scientifico (Le cosmicomiche, Ti con zero, Palomar).
Ad esempio, Le Cosmicomiche è una raccolta di dodici racconti, scritti tra il 1963 e il 1964, relativi all’universo e all’evoluzione. I racconti, narrati in prima persona dal protagonista Ofwfg, sono preceduti da una breve nota introduttiva a carattere scientifico. Nel racconto «La distanza dalla Luna» il narratore ormai vecchio, Ofwfg, rivela che un tempo la Luna era molto vicina alla Terra. All’epoca era molto facile sbarcarvi:
«Bastava andarci proprio sotto con la barca, appoggiarci una scala a pioli e montar su. Il punto dove la Luna passava più basso era al largo degli Scogli di Zinco. Andavamo con quelle barchette a remi che si usavano allora, tonde e piatte, di sughero. Ci si stava in parecchi […]. La Luna aveva una forza che ti strappava […]: bisognava tirarsi su di scatto, con una specie di capriola, afferrarsi alle scaglie, lanciare in su le gambe, per ritrovarsi in piedi sul fondo lunare».
La superficie lunare non era levigata, né tantomeno soffice, ma era simile al «ventre d’un pesce», ricoperto di «spunzoni taglienti», ovvero scaglie appuntite che nascondevano al proprio interno il latte lunare. Molti salivano sulla Luna per recuperare questa prelibatezza. Un giorno accadde, però, un fatto per cui la Luna si allontanò per sempre e divenne «quel cerchietto piatto e lontano» che una volta al mese torna ad essere un po’ più vicina, anche se non è più possibile salirvi sopra.
Nelle Città invisibili (1972) Calvino presenta un racconto a cornice in cui Marco Polo descrive l’immenso impero a Kublai Khan che viene così a conoscenza di città lontane. Il modello su cui è costruito il romanzo è Il milione di Marco Polo. Le città sono metafora del mondo, dell’uomo, della società.
Molto interessante è la descrizione della città di Leonia, appassionata del nuovo, sprezzante del passato, anche di quello prossimo che riguardi anche solo il giorno prima. Calvino non sta riflettendo solo sul degrado, sul consumismo, sull’inquinamento. In realtà, le considerazioni dello scrittore, una volta tolto il velo metaforico, riguardano tutta la cultura contemporanea, tutto il Novecento che ha cercato di demolire e allontanare il passato con conseguenze che potrebbero essere catastrofiche.
Leggiamo il testo, proviamo a rispondere alle domande e, infine, terminiamo con un approfondimento per capire meglio.
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Leonia da Le città invisibili (1972)
La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni: ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall’involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall’ultimo modello d’apparecchio.
Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazzaturaio. Non solo tubi di dentifricio schiacciati, lampadine fulminate, giornali, contenitori, materiali d’imballaggio, ma anche scaldabagni, enciclopedie, pianoforti, servizi di porcellana: più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chiede se la vera passione di Leonia sia davvero come dicono il godere delle cose nuove e diverse, o non piuttosto l’espellere, allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità. Certo è che gli spazzaturai sono accolti come angeli, e il loro compito di rimuovere i resti dell’esistenza di ieri è circondato d’un rispetto silenzioso, come un rito che ispira devozione, o forse solo perché una volta buttata via la roba nessuno vuole più averci da pensare.
Dove portino ogni giorno il loro carico gli spazzaturai nessuno se lo chiede. Fuori della città, certo; ma ogni anno la città s’espande, e gli immondezzai devono arretrare più lontano; l’imponenza del gettito aumenta e le cataste s’innalzano, si stratificano, si dispiegano su un perimetro più vasto.
Aggiungi che più l’arte di Leonia eccelle nel fabbricare nuovi materiali, più la spazzatura migliora la sua sostanza, resiste mal tempo, alle intemperie, a fermentazioni e combustioni. È una fortezza di rimasugli indistruttibili che circonda Leonia, la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne.
Il risultato è questo: che più Leonia espelle roba più ne accumula; le squame del suo passato si saldano in una corazza che non si può togliere; rinnovandosi ogni giorno la città conserva tutta se stessa nella sola forma definitiva: quella delle spazzature d’ieri che s’ammucchiano sulle spazzature dell’altroieri e di tutti i suoi giorni e anni e lustri.
Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell’estremo crinale, immondezzai d’altre città, che anch’esse respingono lontano da sé montagne di rifiuti.
Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta. I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano.
Più ne cresce l’altezza, più incombe il pericolo delle frane: basta che un barattolo, un vecchio pneumatico, un fiasco spagliato rotoli dalla parte di Leonia e una valanga di scarpe spaiate, calendari d’anni trascorsi, fiori secchi sommergerà la città nel proprio passato che invano tentava di respingere, mescolato con quello delle città limitrofe, finalmente monde: un cataclisma spianerà la sordida catena montuosa, cancellerà ogni traccia della metropoli sempre vestita a nuovo. Già dalle città vicine sono pronti coi rulli compressori per spianare il suo estendersi nel nuovo territorio, ingrandire se stesse, allontanare i nuovi immondezzai.
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Rispondi alle domande
Comprensione e analisi
1- Riassumi il brano.
2- Quali sono le caratteristiche della città di Leonia? Perché espelle ogni giorno ciò che è vecchio? Perché vuole avere prodotti nuovi?
3- Quali sono le diverse interpretazioni che si possono dare alla passione per il nuovo e al disprezzo per quanto è anche solo del giorno prima? Soffermati in particolare anche sulla cultura, sull’arte, sulla morale, sugli eventi che contraddistinguono il Novecento (fino al 1972): può essere utile per offrire una comprensione più approfondita del racconto di Leonia.
4- Qual è la profezia catastrofica che riguarda Leonia? Come può essere interpretata?
Interpretazione
Nella narrativa del Novecento spesso ci si imbatte in profezie catastrofiche sul futuro dell’umanità. Soffermati su quelle che ritieni più significative e confrontale con quella qui presentata.
Approfondimento: La perdita delle certezze e la gaia disperazione di un uomo senza Dio
L’epoca contemporanea ha un triste privilegio. In tutte le epoche gli intellettuali hanno dissertato sull’esistenza di Dio. Molti hanno cercato anche di confutarne l’esistenza. Sono sempre esistiti gli atei. Nelle epoche passate, però, la negazione dell’esistenza di Dio raramente si è accompagnata ad una presuntuosa tracotaggine e ad una gaia spensieratezza totalmente dimentica del limite umano e della morte.
L’uomo di oggi troppo spesso si vanta di poter fare a meno di Dio, di poter assaporare i piaceri e le gioie con più libertà, una volta che è stato reciso il legame con il destino e con il Mistero. Finalmente, una volta che tutte le certezze del passato sono state obnubilate e che la tradizione ha rivelato la sua inconsistenza, l’uomo sarebbe libero e potrebbe, così, finalmente ripartire ex nihilo e, mostrando di non avere debiti con il passato e con la superstizione metafisica, creare un mondo nuovo.
Spenti tutti i lanternoni del passato, l’epoca contemporanea assiste all’accensione di un nuovo lanternone culturale che nega l’esistenza di qualsiasi verità assoluta, privilegia una finta tolleranza in nome di un presunto multiculturalismo, si rivolge all’esperto in ogni campo, una volta che tutte le figure di riferimento del passato sono cadute.
Persa di vista l’unità del sapere e il senso complessivo della cultura, si assiste ad una parcellizzazione delle discipline che non sono più riconducibili ad un unicum, che non riescono a dialogare tra loro. Efficacemente il cardinale Joseph Ratzinger coniò l’espressione «dittatura del relativismo» per definire la cultura contemporanea. Non più certezze cui guardare, ma un’unica certezza, quella che non vi sono verità.
All’evidenza delle cose si è sostituito il dubbio applicato a tutto, almeno a livello teorico. A livello pratico, infatti, la demolizione del criterio di conoscenza per fede porterebbe al rapido ritorno all’età della pietra, ogni uomo dovrebbe ripercorrere tutte le tappe del passato se non desse credito alle acquisizioni ereditate. Sul piano tecnico scientifico, spesso il criterio del dubbio non viene invece applicato, anzi talvolta si applica l’ideologia scientista dimentica del vero metodo sperimentale. Così, si propagano teorie o tesi magari ancora non dimostrate.
Sul piano umano, religioso e metafisico, invece, il dubbio è esteso ad ogni campo, investe ogni aspetto del reale. Di fronte al dubbio generalizzato l’uomo non sa più come affrontare l’avventura del reale. All’eroe antico, Oreste, che con decisione si vuole vendicare della morte del padre si sostituisce Amleto, un uomo preso dal dubbio sulla realtà e sull’evidenza delle cose, inerte, incapace di agire, di operare. Come scrive Pirandello, il suo sguardo, tutto rivolto allo strappo nel cielo di carta, non può più rivolgersi al reale. Allora una sonnolenza, una pigrizia, un’inerzia investono la vita umana.
Il relativismo culturale dal campo della conoscenza ha investito nel tempo il campo etico. In assenza del bene e del male, ogni azione umana è arbitraria e soggettiva, cioè valutabile esclusivamente a partire da criteri personali del soggetto che l’ha compiuta. L’azione non è più buona in sé, ma in relazione al fine e agli obiettivi che chi la compie si è prefissato.
Il passaggio dal relativismo gnoseologico ed etico a quello estetico è immediato. Se bello, buono e vero coincidono, in mancanza di un bene e di un vero oggettivi, anche il bello perde uno statuto di esistenza.
All’epoca degli antichi Greci la mancanza di certezze, di divinità buone conduceva ad una serietà nella vita da cui sarebbero nati gli eroi antichi, uomini che, pur nel dolore e nel dramma della vita, si ponevano in modo dignitoso di fronte alla vita e al destino. La tragedia antica è l’esito più maturo di questa percezione dell’uomo avversato dalla fortuna e dalle divinità, disperato, cioè senza speranza. Quella antica è, però, una disperazione seria, titanica, profonda, che potrebbe essere ben espressa con le parole dello scrittore contemporaneo Franz Kafka (1883-1924): «Se la salvezza c’è, voglio esserne degno». L’uomo antico è profondamente religioso e in tutti i modi cerca di indagare il destino, il mistero, il significato.
Quella di oggi è, invece, una gaia disperazione, propria di un uomo che, pensando di poter fare a meno di Dio, deve anche dimenticarsi del destino. Vuole vivere sereno, tranquillo, ottimista, anche se senza ragioni di speranza. Quanta distanza separa l’uomo contemporaneo dalla serietà dell’uomo greco!
Un uomo non impegnato con il reale, in apparenza solare, che non sente il peso della vita e delle difficoltà è, forse, la conseguenza dell’insostenibilità di una visione della vita e del mondo assurda, deprivata del suo significato e di un senso. La leggerezza dell’io è l’altra faccia della medaglia dell’insostenibile pesantezza di una realtà divenuta incognita, inconoscibile, carcere tetro e ragnatela che impedisce di evadere. La leggerezza dell’essere è conseguenza dell’incapacità a reggere un rapporto vero con la realtà, che è diventata insopportabile, una volta che si è fatto fuori il Mistero, il Creatore, il Destino, una volta che si è soli e che ci si percepisce soli.
L’uomo leggero, così come è veicolato dai mass media, non comunica davvero, non si mette in relazione con gli altri, è autonomo, non ammette responsabilità, non si prende cura degli altri, ma solo di se stesso. O così almeno crede.
La leggerezza dell’essere è l’altra faccia della medaglia della pesantezza dell’essere. Se è difficile o addirittura impossibile sostenere l’uomo e la sua speranza, allora è preferibile scordarsi dell’uomo e della sua domanda. Infatti, una volta persa la chiave di accesso al reale, questo non è più affrontabile.
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