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IL RICATTO

Erdogan minaccia di rimandare i foreign fighters in Europa

Il governo turco ha espulso jihadisti statunitensi, danesi e tedeschi, catturati in Siria. Sono circa 1200 i combattenti stranieri dell'Isis nelle carceri turche ed Erdogan ha annunciato che li rimanderà nei Paesi europei di cui sono cittadini. È la sua risposta alle nuove sanzioni dell'Ue contro la Turchia. 

Esteri 14_11_2019
Erdogan

Sono 1.200 i combattenti dell'Isis detenuti nelle prigioni turche, tra i quali anche molti occidentali, in particolare europei. Proprio questi ultimi il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, vorrebbe rimpatriare. In poco tempo, il capo di Stato turco è passato dalle minacce ai fatti: lunedì scorso (11 novembre), Ankara ha espulso alcuni jihadisti di nazionalità statunitense, danese e tedesca, annunciando che i prossimi rimpatri riguarderanno altri cittadini europei – in particolare, sette tedeschi, due irlandesi e undici francesi. 

La decisione della Turchia ha colto di sorpresa i Paesi europei, restii da sempre a reintrodurre nei propri confini i cittadini fuggiti per unirsi allo Stato Islamico. Un futuro incerto attende i foreign fighter, alcuni dei quali sono bloccati - dopo l'espulsione dalla Turchia - in una terra di nessuno da cui gli Stati di origine non hanno alcuna intenzione di salvarli. Se la nazionalità europea dà diritto ai jihadisti di tornare nei rispettivi Paesi di origine, il loro rientro può rappresentare una minaccia per la sicurezza nazionale, a causa della profonda ideologizzazione dei combattenti e delle competenze acquisite sul campo di battaglia. Per questo, nei mesi successivi alla caduta del Califfato, gli Stati europei si erano affidati al governo di Baghdad, offertosi di gestire i processi contro le centinaia di persone catturate dai curdi siriani e sospettate di avere legami con lo Stato Islamico.

La gestione dei foreign fighter “in rientro” è materia di discussione nell'Agenda europea già da molti mesi e, in particolare, dalla sconfitta territoriale dello Stato Islamico in Siria e in Iraq. Al momento, gli Stati europei sarebbero intenzionati al rimpatrio esclusivo degli orfani; recentemente, l'8 novembre, Alvin Berisha, un bambino di 11 anni di origine albanese, è tornato in Italia dal campo profughi siriano di Al-Hol, dopo che la madre – morta in un'esplosione – lo aveva portato nei territori dell'ex Califfato nel 2014.

L'elemento di novità introdotto dalle dichiarazioni della Turchia, riguarda, tuttavia, i rapporti tra Ankara e l'Unione Europea. Negli ultimi mesi, infatti, Erdogan ha adottato quella che potremmo definire una “politica delle minacce” nei confronti dell'Europa. Grazie alla sua collocazione geografica, la Penisola Anatolica costituisce un importante snodo tra Oriente e Occidente e rappresenta un luogo di transito sia per i migranti sia per i jihadisti intenzionati a raggiungere l'Europa. Ben conscia del suo potenziale come “terra di mezzo”, la Turchia sembra ricorrere proprio a questa arma naturale per realizzare, senza ostacoli esterni, i suoi piani di politica estera ed energetica.

Nel mese di ottobre, pur avendo già incassato dall'Unione Europea circa 6 miliardi di euro - destinati alla gestione dei rifugiati siriani all'interno del suo territorio nazionale - Ankara ha lanciato un'operazione militare nel nord della Siria, con l'obiettivo dichiarato di rimpatriare i profughi siriani presenti in Turchia. L'effettivo avvio dell'offensiva turca in Siria - l'operazione “Sorgente di Pace” , iniziata il 9 ottobre scorso – ha suscitato l'opposizione dell'Unione Europea, che ha minacciato l'imposizione di nuove sanzioni al governo di Erdogan.

Così è avvenuto: di fronte alla decisione della Turchia di non porre fine all'operazione militare in Siria, gli Stati europei hanno deciso di bloccare la vendita di armi ad Ankara. Erdogan ha minacciato a sua volta l'Europa, facendo balenare la possibilità di non trattenere più i migranti diretti nel Vecchio Continente all'interno del proprio territorio nazionale, riaprendo quindi la rotta migratoria che dalla Siria giunge in Europa.

Ora si è capito che Erdogan fa sul serio. Parlando ai giornalisti, prima della partenza per gli Stati Uniti (12 novembre), il leader turco ha ribadito che l'Europa “dovrebbe rivedere la sua posizione in merito alla Turchia, che, in questo momento, detiene numerosi membri dell'Isis all'interno delle sue prigioni e, allo stesso tempo, controlla i combattenti che si trovano in Siria” - ovvero 287 jihadisti catturati dalle forze turche durante l'operazione “Sorgente di pace”.

Le dichiarazioni di Erdogan giungono proprio all'indomani della decisione dell'Unione Europea (11 novembre) di imporre una nuova sanzione alla Turchia, oltre a quella delle armi, e che riguarda alcune attività di estrazione del gas nel Mediterraneo orientale. Secondo i ministri degli Esteri dell'Unione Europea, infatti, Ankara avrebbe violato la Zona economica esclusiva di Cipro con le sue attività di trivellazione esplorativa all'interno del bacino di gas nel Mediterraneo orientale.