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Draghi, il socialista liberale ora ci impone il reset della Difesa

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Le elezioni europee hanno evidenzato lo scontento dei popoli per il dirigismo della Commissione a trazione liberal-verde-socialista. Ciononostante, Von der Leyen è stata riconfermata e ora lo studio “tecnico” di Draghi detterà le linee guida a livello politico, economico e militare dell’Unione. Come se nulla fosse accaduto.

Politica 09_09_2024

Come inquadrare la corposa analisi scritta dal Presidente Mario Draghi sul tema del recupero della produttività in Europa? Lo studio gli era stato commissionato dalla Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, circa un anno or sono e Draghi ne aveva anticipato le principali direttrici in un discorso a La Hulpe, in Belgio, nel mese di aprile, di cui ho già scritto sulla Bussola. Anche se i contenuti saranno presentati pubblicamente solo oggi, le anticipazioni sui media consentono di fare già alcune considerazioni di massima.

Il “cordone sanitario” stretto attorno alle opposizioni dà l’impressione che le scelte importanti nell’Unione prescindano dai risultati elettorali, il che rende ipocrita il riferimento di Draghi alla necessaria «centralità del Parlamento europeo». È evidente che l’iniziativa legislativa non è del Parlamento, anzi non è neppure dei commissari europei visto che sono le direttive degli “esperti” come Enrico Letta e Mario Draghi che poi indicano la strada da seguire, i tempi, i mezzi da adottare. Tu chiamala, se vuoi, democrazia: le elezioni sono diventate una sorta di specchietto per le allodole? Lo stesso si può dire del mercato: esso presuppone la libertà economica e la concorrenza leale, mentre le scelte di politica economica portate avanti dalla Commissione Europea, nell’alveo dell’Agenda Onu 2030 per lo “sviluppo sostenibile, inclusivo e resiliente”, prevedono una pianificazione centralizzata delle risorse e delle decisioni, falsificando la concorrenza in modo ideologico e clientelare. Dov’è, quindi, il mercato libero?

La mia impressione è che stia proseguendo, in accelerazione, quanto Mario Draghi aveva già prospettato al 41° Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione nell’agosto 2020. Parlando dell’assunzione di “debito comune” in Europa per finanziare “pragmaticamente” politiche keynesiane come il NextGenerationEU (il cosiddetto Recovery Fund), il Piano di rilancio europeo “per la ricostruzione post-pandemica” – a cui è collegato il piano di attuazione italiano, denominato PNRR, “Piano nazionale di ripresa e resilienza” – Draghi lo aveva definito come un primo passo verso un possibile futuro “Ministero del Tesoro comunitario”. Il debito comune è visto come il grimaldello per comprimere ulteriormente la sovranità degli Stati membri, indipendentemente dal consenso di governati e governanti, e accelerare nella direzione federale degli “Stati Uniti d’Europa”.

Un processo accentratore e dirigistico sempre più chiaro a partire dalla gestione politica dell’epidemia CoViD-19, quindi con la transizione energetica e digitale e ora, soffiando sul fuoco delle tensioni geopolitiche, destinato a proseguire sfruttando tutte le “emergenze” che si presenteranno, vere o presunte che siano. Il Piano Draghi, membro influente dell’establishment globalista, prosegue. Anzi, accelera, nella prospettiva di un super-Stato europeo con una politica unica, a tutti i livelli, decisa da tecnocrati non eletti e superando il vincolo dell’unanimità delle decisioni dei Paesi membri. Ai due soliti pilastri della transizione energetica e della transizione digitale, si aggiunge ora anche il “Reset della Difesa”. A partire dal secondo dopoguerra, i Paesi europei hanno sicuramente fatto sotto-investimenti nel settore militare, contando sull'ombrello di protezione statunitense: tale copertura è destinata a chiudersi sempre più, e col tramonto della Pax americana e l’emergere di un mondo caotico e multipolare i rischi geopolitici saranno inevitabilmente destinati ad aumentare.

Tutto vero, e non si tratta di indulgere in un pacifismo senza se e senza ma, dato che la difesa è proprio uno dei compiti, pochi, che competono specificamente allo Stato. La soluzione proposta, tuttavia, è quella di aumentare in modo consistente i budget della difesa accentrando risorse e decisioni produttive in un costituendo “complesso militare-industriale” a livello europeo – gestito politicamente dal centro –, per garantire l’interoperabilità di armamenti e munizioni e creare un esercito unico europeo. Per giustificare i costi esorbitanti che graveranno sui contribuenti, la narrazione farà leva sulle tensioni geopolitiche, soffiando sul fuoco di rischi prossimi di guerre. Ci ricordiamo tutti il famoso «preferite la pace o i condizionatori accesi?» dell’aprile 2022: anche se i rischi paventati fossero reali, un’affrettata corsa agli armamenti sarebbe comunque inutile: dati gli anni che sarebbero necessari per ottenere risultanti apprezzabili non arriveremmo comunque in tempo.

Considerando poi l’appartenenza alla NATO, un eventuale esercito europeo sarebbe comunque subordinato alle linee politiche stabilite dall’azionista di maggioranza, cioè dagli USA, la cui Amministrazione di turno deve farsi carico delle istanze del proprio complesso militare-industriale, come aveva già denunciato il Presidente Dwight D. “Ike” Eisenhower (1890-1969) nel suo famoso discorso di commiato alla nazione del 17 gennaio 1961: «Nelle riunioni di governo, dobbiamo stare in guardia contro l'acquisizione di ingiustificata influenza, voluta o non richiesta, del complesso militare-industriale. Il potenziale per la disastrosa ascesa di potere mal assegnato esiste e persisterà. Noi non dobbiamo mai lasciare che il peso di questa combinazione metta in pericolo le nostre libertà o i nostri processi democratici».

Per di più, è possibile avere una difesa comune in Europa in assenza di una politica estera comune? No, non è possibile, è qui ritorniamo al tema della “necessaria” cessione di sovranità degli Stati. Insomma, dove non sono arrivate l’epidemia e la transizione energetica e digitale, arriverà l’esercito? Finché c’è guerra c’è speranza: le crisi, insomma, se non ci fossero bisognerebbe proprio inventarle. Molti commentatori hanno iniziato a parlare di “economia di guerra” anche in Europa: a me pare che l’Europa stia flettendo muscoli che non ha, e derubricherei il tutto a un più prosaico, e redditizio, “keynesismo militare”.

Al di là della retorica bellicista, l’accentramento delle risorse e delle decisioni, e delle spese, provocherà certamente danni ingenti per le tasche dei contribuenti e per la libertà economica, a tutto vantaggio del “capitalismo clientelare”, con un’inevitabile ulteriore restrizione della sovranità nazionale. Sarò forse ingenuo, ma non riesco proprio a immaginare i cosacchi che portino i cavalli ad abbeverarsi nelle fontane di San Pietro: ma se non ci sarà “la guerra”, ci saranno però “le spese per la guerra”. Dovremo accontentarci.

Diradatosi il fumo della retorica ci troveremo tra alcuni anni con un governo tecnocratico ancora più forte a livello europeo e sempre più “protetto dai capricci” delle varie tornate elettorali, sia a livello regionale-nazionale sia a livello dell’Unione. Sia la democrazia sia il mercato, in questa prospettiva dirigistica e tecnocratica, saranno ridotti sempre più a parole vuote, senza sostanza. Un ulteriore rischio, così facendo, è quello di andare verso una crescente polarizzazione e un aumento delle tensioni sociali a cui si farà fronte, prevedibilmente, con la lotta alla misinformation e disinformation, cioè con la censura e il controllo, come evocato dalla von der Leyen nel Meeting di Davos di gennaio (cfr. il mio Il pifferaio di Davos. Il Great Reset del capitalismo: protagonisti, programmi e obiettivi, D’Ettoris Editori, Crotone 2024, Cap. III “La Grande Narrazione”).

È sempre più chiaro perché Draghi, con un apparente ossimoro, si era definito, in un’intervista del 17 dicembre 2014 a Die Zeit, un “socialista-liberale”, come d’altronde socialista e liberale (e verde) è la coalizione di interessi che continua a garantire la prosecuzione della Commissione Europea guidata da Ursula von der Leyen. L’insofferenza delle nomenklature europee e globaliste per la libertà di parola, per la libertà economica e per le sovranità nazionali è sempre più evidente, con una protervia che non cerca neppure più di dissimulare. Chi attacca questo sistema definendolo “liberista” e “turbo-capitalista” dovrebbe cambiare le etichette: sacrosante le critiche, senza dubbio, ma chiamiamo le cose col loro nome.

Benvenuti nel “socialismo liberale” del XXI secolo.