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LONTANO DALL'OCCIDENTE

Dove picchiare o uccidere una donna non è reato

Il messaggio più efficace della giornata contro la violenza sulle donne è il monito a chi usa violenza contro le donne: vivi in una società che non lo tollera. Perché siamo eredi della civiltà cristiana occidentale che riconosce diritti inerenti alla persona. Nelle società tribali i diritti dipendono dallo status. E la donna è considerata inferiore. Picchiarla o anche ucciderla non è sanzionato

Famiglia 27_11_2020
Donne in burqa

Benché il COVID-19 quest’anno abbia limitato le iniziative per celebrare Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, tuttavia per un giorno l’Italia si è tinta di rosso come di consueto: scarpe rosse nelle vetrine, tante persone con qualcosa di rosso addosso, monumenti e altri luoghi pubblici illuminati di rosso…

Forse, più di altre iniziative, il messaggio davvero efficace è questo perché è una dichiarazione collettiva, corale, un monito a chi usa violenza contro le donne che dice: sei isolato, in torto, vivi in una società che non lo tollera, noi cittadini di questo Paese condanniamo la violenza sulle donne, guai a chi osa trasgredire, abbiamo leggi che ti sanzionano, vogliamo che siano rispettate e fatte rispettare.

Questa disapprovazione manifesta, questo sentimento collettivo di condanna, espresso in questo caso con un colore, è importante. Ed è importante, fondamentale non dimenticare che il rifiuto della violenza contro le donne è una conquista che va difesa, consolidata, non è un fatto scontato. Ogni anno infatti centinaia di milioni di donne nel mondo subiscono violenze, con l’aggravante, in molti contesti, di essere violenze tollerate o addirittura istituzionalizzate, vale a dire ritenute legittime, consentite e persino prescritte da tradizioni che in alcuni stati sono state tradotte in leggi, in altri sono state bandite, ma ancora influenzano il comportamento di molti.

In Iran, ad esempio, dal 1979, l’anno della rivoluzione khomeinista, per le donne l’età minima per contrarre matrimonio è 9 anni. In Pakistan e in altri stati l’età minima è 16 o 18 anni, ma decine di milioni di donne si sposano prima della maggiore età perché la legge non viene fatta rispettare e la tradizione è tollerata.

Un altro esempio. In Italia picchiare la moglie è un reato punito dalla legge e universalmente disapprovato. In Malawi la tradizione lo ammette. Monsignor Montfort Stima, vescovo di Mangochi, una città dello stato africano del Malawi, inaugurando nei giorni scorsi un seminario per i giornalisti cattolici ha ricordato che durante la cerimonia nuziale gli invitati tra l’altro cantano una canzone che dice “il marito ha diritto di nuocere alle sue mogli”. Questo, ha commentato, contribuisce molto a far sembrare le ragazze e le donne inferiori agli uomini. Secondo la tradizione delle etnie costiere del Kenya, il padre della sposa a un certo punto della cerimonia nuziale dice al marito a cui consegna la figlia: “adesso lei fa parte dei tuoi beni, accudiscila come fai con il tuo bestiame, se disobbedisce o non si comporta bene prima sgridala, ma se continua picchiala, facendo attenzione però a non renderla invalida”. Dunque in questo caso un marito ha non solo il diritto, ma il dovere di picchiare la moglie per punirla, perché questo deve fare un buon capofamiglia.

Non sempre ci ricordiamo e apprezziamo appieno il fatto di vivere in Italia e di essere i fortunatissimi eredi di una civiltà, quella cristiana occidentale, che ha formulato un principio non negoziabile: l’esistenza di diritti inerenti alla persona umana, quindi inalienabili e universali. Recepito dalle Nazioni Unite, questo principio si è concretizzato nel 1948 nella Dichiarazione universale dei diritti umani che al primo articolo afferma: “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”; e nel secondo: “a ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”.

In altre società, quelle arcaiche, quelle tribali invece i diritti dipendono dallo status sociale che ciascuno occupa e inoltre questo status è in gran parte ascritto, dipende cioè, idealmente del tutto, di fatto in gran parte da fattori indipendenti dalla volontà, dalle doti e dalle capacità individuali: il sesso, nascere maschi o femmine, l’ordine di nascita, rispetto ai fratelli e agli altri parenti, e questo vale soprattutto per i maschi, la posizione sociale della propria famiglia.

Dove i diritti dipendono dalla posizione sociale, lo status delle donne è inferiore a quello degli uomini, è uno status sottomesso, in certe società equiparabile alla schiavitù. La loro vita, e quella dei bambini di entrambi i sessi fino a una certa età, ha meno valore, conta di meno. In effetti in determinati contesti sociali l’unico valore di una donna è la sua capacità di generare figli per chi la sposa. Ancora adesso in Africa capita di sentir dire di una donna sterile che meglio sarebbe non fosse mai nata, perché non serve a niente.

L’influenza di questo atteggiamento nei confronti delle donne è ancora forte. Ecco perché si verificano così tanti casi  e così tante forme di violenza  e di discriminazione, tante violazioni dei diritti umani proprio all’interno della famiglia che invece dovrebbe essere il luogo più sicuro e protetto.

Le più diffuse nel mondo, inflitte a centinaia di milioni di bambine e di donne, sono i matrimoni precoci e quelli combinati, imposti anche a donne, e meno spesso a uomini, maggiorenni, il prezzo della sposa che trasforma le donne in oggetto di scambio e proprietà, gli omicidi d’onore, le mutilazioni genitali femminili.

Per decine di milioni di bambine, poi, la prima, estrema violenza è quella che non le lascia nascere o che le uccide neonate. Sono gli aborti e gli infanticidi selettivi praticati in Cina, nel periodo in cui è stata in vigore la politica del figlio unico, e in India, dove servono per alleviare l’onere della dote alle famiglie indù.