Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
DIVORZIO DAI FIGLI?

Dopo l'utero c'è anche la famiglia in affitto

Una coppia cinese aspetta da un anno di "ritirare" la figlia dalla madre surrogata, la quale si è imposta un distanziamento affettivo: «La considero come se fosse figlia di una cugina, pensando all'emozione dei genitori quando la vedranno dal vivo». Dei sentimenti della bambina nessuno si preoccupa, mentre gli acquirenti affittano la famiglia americana aprendo scenari inquietanti.

Editoriali 03_04_2021

Piccoli inconvenienti della pandemia. La statunitense Emily Crislips ha 25 anni, è sposata ed ha un bimbo. Come volontariato (oppure per arrotondare) non serve alla mensa dei poveri, non regala coperte ai senzatetto, non dona il sangue, bensì «dona» il proprio utero a quelle coppie che non possono avere un bambino o che non vogliono avere un bambino come Dio comanda.

Ecco allora che Emily ospita nel proprio grembo una bambina, che chiameremo Lin, di una coppia cinese. L’ovocita infatti ha «gli occhi a mandorla». Poi scoppia la pandemia e per fortuna non sono stati ancora istituiti lockdown per impedire il trasferimento dei bambini dall’utero alla luce del sole e quindi Lin nasce. Problema: proprio a causa del Coronavirus, la coppia cinese non può venire a prendersi il «pacco» nel punto di ritiro presso la famiglia di Emily, né Amazon è ancora abilitata alla consegna di esseri umani vivi. Da qui la decisione comune dei «tre» genitori: aspettiamo e nel frattempo Lin crescerà presso la family a stelle e strisce.

Emily commenta davanti alle telecamere di Good Morning America: «Abbiamo avuto la sensazione che questa fosse la soluzione più giusta. Non ci piaceva l'idea che la bambina venisse affidata ad un'agenzia di Babysitting, mentre per noi non sarebbe stato un problema occuparci di lei. Abbiamo una famiglia armoniosa e io l'ho tenuta dentro di me. Insomma, ci siamo detti: possiamo occuparcene!». La coppia cinese guarda sullo schermo del Pc la bimba crescere, come se stesse guardando una soap opera ritagliata su misura, una fiction on demand. Ogni giorno qualcosa di nuovo da commentare, una sorpresa, un colpo di scena: il peso che aumenta, i vagiti che cambiano, le coliche. I genitori biologici diventano spettatori della crescita della figlia, l’educazione diventa virtuale. Una situazione paradossale che nel suo paradosso mette in evidenza quanto la maternità surrogata sia, in realtà, una maternità virtuale.

Emily si è autoimposta un distanziamento affettivo e fiduciario: «La considero come se fosse la figlia di una cugina. Mi occupo di lei. La amo e sarò sempre disponibile per lei, ma so che non appartiene a me, ma ai suoi genitori».

Tutti e tre guardano al futuro, a quando la coppia cinese potrà venire a ritirare Lin. La gestante così descrive quel momento: «Cerco di immaginare tutti i possibili scenari e mi lascio prendere dalle emozioni quando ci penso. Posso soltanto ipotizzare cosa potrà significare per loro vedere la piccola per la prima volta. Sarebbe come incontrare il proprio figlio dopo un anno dal parto». Insomma per la madre biologica sarebbe un parto differito, a scoppio ritardato, senza il pre-parto, ossia la gestazione.

Questa vicenda, che risponde perfettamente alla teoria seconda la quale disordine chiama disordine, ci permette di affermare che se è moralmente lecito l’utero in affitto lo dove essere anche la famiglia in affitto. In questo caso abbiamo visto che è parsa cosa buona e giusta che l’artigiana che ha forgiato nel suo corpo il piccolo vaso di nome Lin, possa tenerlo presso di sé finchè i committenti non potranno venire a ritirarlo. Da qui la domanda: ma se è giusto che una famiglia cresca la figlia di un’altra coppia a seguito di maternità surrogata, perché non fare questa scelta anche in altre occasioni? Non stiamo parlando di adozioni e affido quando i genitori biologici risultino essere incapaci di educare la prole – lecito e doveroso – ma di altre circostanze che nulla hanno a che vedere con l’incapacità genitoriale.

Ad esempio Matteo ed Giulia vogliono affittare una famiglia dove depositare i figli durante le vacanze, oppure in un periodo di forte stress lavorativo, oppure per trovare tempi e spazi al fine di non divorziare, oppure semplicemente per tirare il fiato, oppure per far sperimentare ad una coppia gioie e affanni della paternità e maternità, un affido/affitto samaritano. Perché vietarlo?

Voi direte: già capita con nonni e amici. E questo va bene proprio a motivo dei legami familiari o di amicizia che vi sono, ma il suggerimento che viene dalla vicenda sino-americana è quello di istituzionalizzare il fenomeno ed estenderlo a locatori sconosciuti ai locatari. In breve se si può affittare l’utero perché non si può affittare una famiglia? Se è lecito far crescere biologicamente il figlio di un’altra coppia dentro il proprio utero, perché non dovrebbe essere lecito far crescere dal punto di vista educativo e della cura dei bisogni essenziali il figlio di un’altra coppia all’interno della propria famiglia?

L’analogia tra le due realtà, una attuale l’altra eventuale, mette in evidenza il significato post moderno della genitorialità ed apre a scenari deliranti. Il figlio diventa un benefit che si pretende, al netto delle responsabilità. Se il figlio è diventato on demand, potendo scegliere se averlo (provetta) o non averlo (aborto), opzionando il sesso, il colore degli occhi e dei capelli, non si comprende perché tale formula non potrebbe essere applicata anche dopo il parto. Tengo il figlio finchè non mi appaga, non mi è utile. Poi lo deposito da qualche parte, per un certo periodo di tempo oppure per sempre. Così dall’affitto dell’utero siamo passati all’affitto della famiglia e infine all’affitto del figlio stesso.

L’ipotesi potrebbe essere sostenuta con mille ragionamenti. Ad esempio, cosa è questa storia che il matrimonio non è più indissolubile da tempo e invece la genitorialità sì? La genitorialità, già liquefatta in moltissimi modi («famiglie» arcobaleno, fecondazione omologa ed eterologa, doppia maternità biologica, etc.), spinge per diventare a tempo determinato. Se ti stanchi del figlio lo restituisci. Un famigerato slogan abortivo non è «la maternità deve essere una scelta»? Allora, come si può scegliere di non volere più quel figlio che ti occupa il ventre da qualche settimana, così dovrà essere consentito di non voler più quel figlio che ti occupa casa da qualche anno. Senza ucciderlo, per carità, ma trasferendolo in un altro nucleo familiare. Oppure, altra soluzione, avremo una genitorialità «stop and go»: in alcuni periodi cresci tuo figlio e in altri no. Una genitorialità flessibile, sostenibile, a basso impatto di stress emotivo.

Oppure si potrà optare per un figlio in «buy back», quella formula di acquisto che prevede di versare una certa somma di denaro per l’acquisto di un’auto (ricordiamoci che per delocalizzare la produzione di un figlio occorre sborsare quattrini), con l’opzione di saldare la quota rimanente e diventare proprietario dell’auto oppure ridare indietro la vettura. Tradotto: la coppia richiedente paga una quota alla gestante, tiene in prova il figlio qualche anno e poi decide se tenerlo oppure ridarlo indietro all’agenzia che, volendo, potrà consegnare alla stessa un nuovo modello di figlio. Ovviamente la formula, per non discriminare nessuno, si potrà applicare anche ai figli che vengono al mondo alla vecchia maniera, consegnando, in questo caso, i pargoli a qualche istituto. Insomma, restituzione del figlio quando si vuole. Lo si fa con mariti e mogli tramite il divorzio, perché non applicare la medesima ratio anche ai figli? Perché non divorziare anche da loro?