Dopo l'omicidio di Kirk inizia, da destra, la purga di chi lo odiava
Lo show di Jimmy Kimmel sospeso dalla televisione Abc, per il suo commento irrispettoso su Charlie Kirk e sul suo assassino. Sono sempre di più i licenziamenti per chi giustifica il delitto. Comprensibile, ma si va verso una cancel culture di destra.

Tutto è successo molto rapidamente: lunedì 15 settembre, Jimmy Kimmel, noto intrattenitore della Abc (televisione che ora è di proprietà della Disney) nel suo show serale ha parlato dell’assassinio dell’attivista Charlie Kirk, promuovendo una teoria, tipica della sinistra, sull’appartenenza ideologica del suo attentatore. Due giorni dopo il suo programma era sospeso “a tempo indeterminato”.
Che cosa ha detto Kimmel, prima di tutto? «La banda Maga (Make America Great Again, ndr) sta disperatamente cercando di caratterizzare questo ragazzo che ha ucciso Charlie Kirk come qualcosa di diverso da uno di loro e sta facendo tutto il possibile per guadagnare punti politici da esso». In pratica, ha dato voce alla teoria, sempre più in voga nella sinistra, secondo cui anche Taylor Robinson, l’uccisore di Charlie Kirk, antifascista autocertificato, sia in realtà un uomo “di destra” perché di famiglia conservatrice, mormone, repubblicana e abbia la stessa passione per le armi dei conservatori. Lui stesso ha però scritto slogan antifascisti sui proiettili. E la madre ha dichiarato alla stampa che negli ultimi anni stesse abbracciando idee radicali di sinistra, contro Trump. Aggiungiamo anche che convivesse con un transessuale, non proprio una caratteristica tipica di un conservatore religioso mormone. Ma per Kimmel, come molti altri commentatori di sinistra, l’omicidio di Kirk è “un affare interno alla destra”.
La reazione non si è fatta attendere, non dalla televisione, ma dal governo stesso. Ed è questo l’elemento che preoccupa e fa giustamente discutere anche gli ambienti culturali di destra. Perché Brendan Carr, il presidente della Federal Communication Commission (ente che regolamenta le emittenti) ha dichiarato in un’intervista a Cnbc che Kimmel ha fatto disinformazione sul caso Kirk, poi ha ribadito lo stesso concetto in modo più forte su Fox News. E ad un podcaster amico, Benny Johnson, ha anche detto, in diretta streaming, che avrebbe valutato “azioni” sulla licenza di trasmissione della Abc. Poche ore dopo, la Disney ha deciso di sospendere lo show di Jimmy Kimmel. Carr non ha agito da solo. Ha agito su impulso del presidente Trump, il quale, subito dopo la notizia della sospensione, si è congratulato con la Abc per aver fatto “quel che doveva fare”. Poi si è anche augurato la chiusura di tante altre trasmissioni.
Quello di Kimmel è l’ultimo caso eclatante di una catena di fatti simili, tutti seguiti rapidamente all’assassinio di Charlie Kirk. Il primo giornalista ad essere licenziato è stato Matthew Dowd, che subito dopo l’assassinio dell’attivista aveva di fatto rovesciato la colpa sulla vittima, al suo “linguaggio di odio”. All’attivista che cercava il dialogo paziente con gli studenti radicalizzati, Dowd rimproverava: «I pensieri di odio portano a parole di odio, che poi portano ad azioni di odio». Il suo licenziamento è avvenuto immediatamente dopo questo suo commento, probabilmente senza neppure attendere pressioni dalla politica. Immediatamente dopo il caso Dowd è toccato alla giornalista del Washington Post Karen Attiah, che aveva commentato così l’attentato a Kirk: «Rifiutare di strapparmi le vesti e cospargermi di cenere in lutto per un uomo bianco che ha sposato la violenza non è la stessa cosa che esercitare la violenza». E poi, come se non bastasse: «Parte di ciò che mantiene l'America così violenta è l'insistenza nel pretendere che le persone dimostrino cura, vuota bontà e assoluzione nei confronti degli uomini bianchi che sostengono l'odio e la violenza…». Odio e violenza, nelle parole di Kirk, non si trovavano, a meno di non volerlo per forza incasellare come un violento solo per quello che era: un uomo bianco, un cristiano e un repubblicano fedele a Trump. E queste parole sono costate alla Attiah un licenziamento in tronco da parte del quotidiano di proprietà di Jeff Bezos.
La “purga” non riguarda solo i giornalisti, ma anche tanti altri settori. Shane Gillis, comico con simpatie di destra, nonché vittima della cancel culture di sinistra, è stato attaccato stavolta da destra solo per aver dato impiego (in passato) ad un tecnico del suono che poi ha inneggiato alla morte di Kirk. Insomma: il solito clima da caccia alle streghe. JD Vance, il vicepresidente, ha spronato chiunque legga o senta un commento di odio a “chiamare i datori di lavoro”, per far licenziare l’odiatore. Lo stesso concetto è stato ribadito anche dalla Procuratrice generale Pam Bondi (equivalente del ministro della Giustizia) che promette lotta dura contro “il linguaggio di odio”: «Ti prenderemo assolutamente di mira, ti perseguiteremo, se stai prendendo di mira qualcuno con incitamento all'odio», ha dichiarato in un’intervista. Un linguaggio che, finora, era tipico della sinistra woke. Non a caso, le critiche più dure, nei suoi confronti, sono arrivate dai banchi dei Repubblicani. E Pam Bondi ha dovuto rettificare, precisare che verrà colpito solo il linguaggio d’odio che si traduce in istigazione a delinquere.
In questa vicenda si intersecano tre problemi. Il primo è quello di una sinistra che non vuole ammettere i propri errori. Di fronte alla sua violenza politica, non sa chiedere scusa, ma nega (“l’assassino in realtà è di destra”) e ribalta l’accusa (“la colpa è della vittima che provocava”). Il secondo è quello del linguaggio di odio, dell’odio vero, non quello immaginato dai woke, ma, in questo caso, l’istigazione e poi la giustificazione di un delitto. Di fronte al quale i datori di lavoro possono giustamente prendere la decisione di licenziare l’odiatore, soprattutto se è un insegnante, o un comunicatore pubblico. Le parole hanno conseguenze, chi educa e comunica, e contribuisce alla formazione dell’opinione pubblica, ha una grande responsabilità. Il terzo è il diritto alla libertà di espressione: quando è il governo a scendere in campo, quando sono figure apicali dello Stato federale a invitare al licenziamento di questo o quel giornalista, la libertà di espressione è seriamente a rischio. Ed è quantomeno singolare che questo rischio arrivi dall’amministrazione Trump, inaugurata proprio all’insegna della libertà di espressione, al cambio di rotta anche delle grandi piattaforme social finalmente libere dalla censura politicamente corretta dei liberal.