Diritto, una questione romana che abbiamo ereditato
L’elenco dei termini latini legali in uso oggi sia nel diritto continentale che in quello anglosassone è lunghissimo. Per questo una buona conoscenza della lingua latina agevola l’apprendimento del diritto.
Vale la pena conoscere le leggi, perché «ignorantia legis non excusat». Nessun cittadino può, infatti, invocare la non conoscenza della legge come scusante per la violazione della stessa.
Se il diritto anglosassone (o common law) si basa sulle sentenze del passato (secondo il principio che si debbano trattare fatti simili in modo analogo), il diritto continentale (o romano germanico, detto anche civil law) si fonda sui codici scritti che costituiscono la fonte principale della legge. Il punto di partenza è, senza dubbio, il diritto romano in vigore per tanti secoli dalla fondazione di Roma (753 a. C.) fino alla conquista dell’Italia da parte dei Longobardi nel 569 d. C. Nell’impero romano d’Oriente le leggi rimasero fino al crollo avvenuto nel 1453.
L’elenco dei termini latini legali in uso oggi sia nel diritto continentale che in quello anglosassone è lunghissimo. Per questo una buona conoscenza della lingua latina agevola l’apprendimento del diritto.
Nei primi secoli il diritto romano è solo orale, regolamentato dalle familiae e dalle gentes prima, dai pontefici poi. Questi ultimi rappresentano certamente i ceti aristocratici ed esercitano la legge prevalentemente in loro favore. Per questo si acuiscono i contrasti tra patrizi e plebei che ottengono, nel tempo, la costituzione di una commissione mista per la redazione della prima legge scritta. I decemviri legibus scribundis («i decemviri per la scrittura delle leggi») si recano ad Atene per studiare le legislazioni greche. L’anno successivo un nuovo gruppo di decemviri, del tutto modificato nella composizione rispetto al primo, porta a termine il lavoro emanando le prime leggi romane scritte su dodici tavole di bronzo, che nella tradizione latina rappresentano l’inizio del diritto positivo romano. Da quanto racconta lo storico Livio i decemviri studiano le leggi di Licurgo a Sparta (750 a. C.), di Dracone (620 a. C.) e di Solone (594 a. C.) ad Atene.
Le Leggi delle XII tavole sono una delle prime testimonianze scritte di carattere preletterario. La prima tavola riguarda la procedura civile. Vi leggiamo: «Se uno cita in giudizio qualcuno, costui ci vada. Se non va, colui che lo ha citato assuma dei testimoni e quindi lo trascini dal giudice. Se si sottrae o tenta di fuggire, si imponga la mano. Se la malattia o l'età avanzata sono un impedimento, gli sia dato un mulo. Se non lo vuole, non gli sia data alcuna lettiga. Se ambo i contendenti sono presenti, il tramonto sia il limite ultimo del processo».
Nella tavola IV si affronta il rapporto tra genitori e figli. Vi si legge che un padre perde la patria potestas sul figlio nel caso lo abbia venduto per ben tre volte. Nell’antica Roma il figlio maschio rimaneva sotto la potestà del padre fino alla maggiore età. Secondo la lex pletoria (192 a. C. -191 a. C.) era punito chi avesse approfittato dell’inesperienza di minori di venticinque anni. Era di solito indicato con il nome di adulescens chi avesse meno di quell’età. Le donne rimanevano, invece, sempre sotto la potestas di un uomo. Nell’antica Roma, il matrimonio poteva avvenire cum manu o sine manu (il termine «manus» in latino non significa solo «mano», ma anche manipolo, esercito, forza, potere). Nel primo caso la donna passava dalla potestà del padre a quella del marito.
Nel secondo caso, pur sposandosi, la moglie era ancora sotto l’autorità paterna. In entrambe le situazioni la donna non aveva pari dignità, era anzi quasi oggetto, poteva addirittura essere ammazzata dal marito o dal padre senza che questi subisse un processo nel caso in cui lei avesse commesso adulterio o avesse bevuto vino (in base ad una legge che veniva addirittura fatta risalire a Romolo). Il cambiamento nella considerazione della donna e dell’amore avverrà solo con il cristianesimo. Nella stessa tavola si stabilisce che «un bambino chiaramente deformato deve essere ucciso».
Siamo ben distanti dal riconoscimento della pari dignità tra uomo e donna come pure dall’attestazione della sacralità della vita frutto della tradizione cristiana. Ma le antiche leggi ci dimostrano che la diffusione dell’attuale cultura della morte anche nel diritto, additata come progresso e affermazione del diritto, nasconda semplicemente un ritorno al paganesimo antico dovuto al graduale rifiuto di Cristo nella cultura contemporanea. Non progresso, ma regresso si devono chiamare le leggi attuali di eutanasia (anche infantile), di rifiuto della cura per bimbi gravemente ammalati o con problemi cronici, di aborto (ancor più nei casi di bambini che hanno malformazioni o malattie riscontrabili già nel grembo materno, etc.).
Nelle XII tavole si assiste al tentativo di superamento della legge del taglione, anche se solo in forma parziale: «Se un tale romperà un membro a qualcuno, se non interviene un accordo, si applichi la legge del taglione». Di certo siamo ancora lontani dalla uguaglianza di fronte alla legge delle persone. Leggiamo: «Chiunque rompa l'osso di un altro, a mano o con un bastone, deve pagare trecento sesterzi se è un libero; centocinquanta se è uno schiavo; se abbia commesso altrimenti offesa la pena sia di venticinque». Gli schiavi sono considerati all’interno del diritto delle cose e non avevano alcun diritto o obbligo giuridico. La stessa unione tra schiavo e schiava non aveva valore di matrimonio e poteva essere separata dal padrone in qualsiasi momento.
Diversa è la condizione dei clientes. Il cliente è un cittadino che è tenuto ad ottemperare ad una serie di obblighi nei confronti del patronus che in cambio gli riconosce una somma di denaro o l’usufrutto di un bene o ancora lo accoglie in casa in caso di necessità. Ebbene, secondo la legge «se un patrono froda il cliente, sia maledetto (cioè sia ucciso)».
Ancora sul furto le XII tavole stabilisce che un ladro che tenti di rubare di notte possa essere ucciso. «Se di giorno [l’omicidio è legittimo] se [il ladro] si sarà difeso con un’arma [e se il derubato avrà prima tentato] di gridare aiuto».
Dopo la prima forma di diritto rappresentata dalle XII tavole nei secoli si succedono le legislazioni scritte, dal Ius flavianum (IV secolo a. C.) al Codice teodosiano emanato dall’imperatore Teodosio II (408-450) in Oriente.
L’imperatore Giustiniano (527-565) riunisce nel Corpus iuris civilis tutte le leggi emanate nello Stato romano in mille anni di storia, facendo eliminare quelle superflue e ripetitive. Per usare la nota espressione dantesca del Paradiso si dedica così a «l’alto lavoro», quello di togliere «il troppo e ‘l vano» «d’entro le leggi». Si allude qui alla stesura del Corpus iuris civilis. In realtà, l’opera viene realizzata da un collegio di giuristi presieduto da Triboniano. Dal 527 al 533 le leggi, le sentenze e i commenti del millenario diritto romano vengono semplificati tanto che tre milioni di proposizioni sono ridotte a centocinquantamila. Quattro libri divengono la base del nuovo diritto: le Istituzioni, il Codice giustinianeo, le Novelle e il Digesto. Giustiniano sottolinea così l’importanza dell’unità dell’Impero, un’unità che non è solo di carattere politico, ma anche giuridico.