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VERSO LA COP 24

"Diplomazia climatica"? È il suicidio dell'Europa

Le Nazioni Unite, l'Unione Europea, la Chiesa cattolica, Amnesty International e altri ancora: con l'avvicinarsi della Conferenza sul clima (Cop24) di Katowice si intensificano rapporti e allarmi, nella convinzione di dover cambiare il coima anziché adattarvisi, come è sempre accaduto. 

Creato 19_11_2018
Katowice è la città che ospiterà la Cop24

Dal 2 al 14 dicembre si svolgerà a Katowice, Polonia, la Conferenza internazionale sul cambiamento climatico Cop24, organizzata come le precedenti dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Riunirà circa 20.000 persone di oltre 190 paesi per fare il punto sull’attuazione dell’Accordo universale sul clima stipulato nel 2015 a Parigi per contenere l’aumento della temperatura del pianeta entro i 2 gradi centigradi, meglio se 1,5.

Il presupposto è che la temperatura del pianeta stia costantemente e inesorabilmente aumentando, che il fenomeno sia di origine antropica e che sia altamente pericoloso, con il rischio di devastanti conseguenze irreversibili, se mai si superasse il “punto di non ritorno”.
È un presupposto che, pur in mancanza di dati definitivi e analisi scientifiche convincenti, è condiviso senza riserve dall’Unione Europea. Il 26 febbraio scorso il Consiglio dell’UE si è impegnato a svolgere un ruolo guida in ambito di “diplomazia climatica”, in considerazione “della straordinaria urgenza di intensificare gli sforzi globali per fermare e invertire il cambiamento climatico”. Il Consiglio assicura tra l’altro che l’UE continuerà a “sostenere, promuovere e proteggere i diritti umani anche nel contesto del cambiamento climatico e della diplomazia climatica”; sottolinea come “l’uguaglianza di genere, l’empowerment delle donne e la loro piena e paritaria partecipazione e leadership siano vitali per uno sviluppo sostenibile, inclusa la possibilità di intervenire sul cambiamento climatico” e garantisce la salda adesione alle iniziative che impegnano l’UE e i partner internazionali in “una azione sostenibile per combattere il cambiamento climatico”.   

Se l’UE parla di “diplomazia climatica”, la Chiesa parla di “giustizia climatica”. A ottobre, con una dichiarazione congiunta, le Conferenze episcopali di Europa, Asia, America Latina, Africa e Oceania hanno chiesto ai leader mondiali una azione immediata (clicca qui). “Questa dichiarazione – ha spiegato Tomas Insua, direttore esecutivo del Movimento cattolico mondiale per il clima – indica con forza che la Chiesa cattolica globale è impegnata ad accelerare l'azione per la giustizia climatica. (…) Ogni tacca nel termometro globale è una tragedia per i più vulnerabili, e non possiamo perdere neanche un momento, dobbiamo trovare soluzioni per loro e per le generazioni a venire”.

In vista del Cop24, il 10 ottobre anche Amnesty International ha emesso un comunicato, intitolato “L’incapacità di agire rapidamente sui cambiamenti climatici rischia di provocare enormi violazioni dei diritti umani”. AI sostiene che “i governi devono impegnarsi in obiettivi di riduzione delle emissioni molto più ambiziosi per limitare l’aumento della temperatura media globale o dovranno assumersi le loro responsabilità per la perdita di vite umane e altre violazioni dei diritti umani e abusi su una scala senza precedenti, con innumerevoli persone in tutto il mondo che stanno già soffrendo gli effetti catastrofici di inondazioni, ondate di calore e siccità aggravate dai cambiamenti climatici”.

La risposta alle catastrofi ambientali è emigrare. Un’altra espressione ormai familiare è “migranti climatici”, che diventano “rifugiati climatici” se varcano i confini nazionali. Il rapporto “Lancet countdown” 2017 ipotizza più di un miliardo di “profughi climatici” causati dal global warming nei prossimi decenni. I migranti climatici – spiega il rapporto – sono “persone che le alterazioni estreme nella quantità di pioggia e nelle temperature hanno privato della capacità di coltivare” e che quindi non hanno altra soluzione che andarsene. La Banca Mondiale a marzo ha pubblicato un documento intitolato “Groundswell: Preparing for internal climate migration” in cui sostiene che, senza una tempestiva azione globale di contenimento dei cambiamenti climatici, entro il 2050 143 milioni di persone emigreranno entro i confini dei rispettivi paesi. Entrambi i rapporti sostengono che le migrazioni umane di massa, dentro e fuori i confini nazionali, si verificheranno in Africa sub sahariana, Asia Meridionale e America Latina, le tre aree geografiche più vulnerabili.

L’urgenza di agire, gli appelli serrati che mettono fretta distolgono l’attenzione da un fatto: non tutto il pianeta è minacciato dai cambiamenti climatici. Non si prevedono disperate ondate migratorie di nordamericani, europei, australiani, giapponesi … Dovrebbe essere evidente che è perché hanno una maggiore capacità di resilienza sia individuale che collettiva: dispongono di tecnologie che consentono di far fronte a condizioni climatiche avverse e le usano. L’ovvia conclusione sembrerebbe essere che le popolazioni, non le aree geografiche, più vulnerabili e fragili dovrebbero fare altrettanto, prendere esempio da chi meglio si adatta all’ambiente naturale e lo adatta con profitto alle proprie esigenze al tempo stesso.

È quel che l’umanità ha sempre fatto e con crescente successo. Ma adesso le Nazioni Unite hanno convinto il mondo che è tempo di controllare il clima invece di adattarvisi. Hanno anche convinto il mondo che tutti i problemi sono incominciati con l’industrializzazione. Bisogna limitare l’aumento medio globale della temperatura a 1,5 gradi al di sopra dei livelli preindustriali, dicono gli esperti Onu. Bisogna “preservare e proteggere il sapere e le tradizioni delle comunità indigene”, sostengono le Conferenze episcopali mondiali, come se quelle tradizioni e quei saperi avessero mai garantito maggior rispetto dell’ambiente. "L’immenso torto che l’Occidente ha inflitto al resto del mondo va sanato".