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VATICANO

Dimissioni, anche Paolo VI ci pensò

La decisione di Papa Benedetto XVI ha diversi precedenti nella storia della Chiesa, che sarebbero molti di più se tanti altri papi avessero dato seguito alle loro intenzioni.

Ecclesia 14_02_2013
San Pietro

Di papi che hanno rinunciato per amore o per forza ce ne sono stati nella storia della Chiesa; per la verità anche di deposti (ma non è il caso che qui vogliamo trattare). Pochi ma ci sono. E sarebbero stati molti di più, se tanti pontefici che nell’ora grave pensarono alla rinuncia avessero davvero osato.

I PAPI CHE SI SONO DIMESSI
Sin dall’inizio si cominciò con le dimissioni. Prendi san Clemente I, che rinunciò intorno al 97. Era il quarto papa, presbitero forse consacrato direttamente da Pietro. Ponziano, in una nuova ondata di persecuzione anticristiana, fu fatto arrestare dall’imperatore Massimino e deportare in Sardegna, ma prima di partire, sapendo che vi sarebbe morto per le dure condizioni di prigionia, si dimise (e fu la prima rinuncia con tutti i crismi) nel 235. Silverio, imposto come papa in seguito (e suo malgrado) a intrighi imperiali, fu poi deposto per gli stessi intrighi. Dopo un tira e molla intricatissimo, essendoci già un altro papa (imposto alla stessa maniera di Silverio), già in esilio camuffato, gli fu estorta la rinuncia nel 537. Si dimise pure un altro Benedetto, il IX. Un pontificato sinistro, vittima e correo di vicende pazzesche, rinunciò nel 1045 e nel 1048, collezionando diversi primati: salì al trono di Pietro tre volte, vi ridiscese due volte. La prima fu rinuncia, la seconda una sorta di deposizione: il secondo pontificato fu dichiarato nullo poiché, avendo ceduto simoniacamente la carica alla prima dimissione, fu ritenuto moralmente non degno.

Gregorio VI pare che avesse ottenuto la carica tramite simonia. Purtroppo il re Enrico III di Germania, desideroso di mettere ordine nella Chiesa, s’insospettì, scese a Roma e presiedendo egli stesso il concistoro processò il papa. Si dice che Gregorio ammise. Taluni dicono fu deposto, altri che gli fu estorta la dimissione. Di Celestino V che rinunciò nel 1294 – in fondo per ragioni non dissimili da Benedetto XVI, non ultima la tarda età e il riconoscere la sopravvenuta “inadeguatezza” a svolgere il grave ufficio – di lui già molto sappiamo da secoli (e Dante ci mise del suo, forse) e troppo si sta dicendo in queste ore. Gregorio XII si dimise nel 1415, in una situazione la più incredibile e complicata della storia della Chiesa, essendoci contemporaneamente al trono diversi papi e antipapi. Ci furono appositi concilii. Alla fine, generosamente Gregorio abdicò in favore dell’elezione di un nuovo papa sulla cui designazione “legittima” si era trovato un accordo.

I PAPI CHE SONO STATI TENTATI DALLE DIMISSIONI
Poi ci sono quelli del “vorrei ma non posso”… Per restare all’epoca moderna e contemporanea, si verificò l’elezione imprevista di un altro “tedesco”, che poi era un olandese, nel 1522: Adriano VI di Utrecht. Sarà per quattro secoli l’ultimo papa non italiano. Estraneo all’ambiente romano, era un ascetico e severo professore di teologia e diritto, che da subito si ritrovò psicologicamente a disagio nella frivola corte rinascimentale ereditata da Leone X. Non conosceva la lingua italiana, ma riuscì a comprendere che spesso si facevano beffe di lui. Non lo appassionò mai quella suprema carica, la visse come un fardello massacrante. Sentendosi “inadeguato”, vedendo le sue decisioni rimbalzare su muri di gomma, pensò sin dall’inizio alle dimissioni ma non poteva. Decise di avere ancora un po’ di pazienza: intanto, però, non riusciva a domare la Curia. Sopraggiunse finalmente la morte, dopo un anno e mezzo di silenzioso martirio petrino, a liberarlo. Sulla sua tomba ancora oggi è scritto: “Qui giace Adriano VI, che ebbe la maggiore delle sventure, quella di regnare”.

Il veneziano Clemente XIII, papa dal 1758 al 1769, in un clima di forti prepotenze da parte dell’Impero da una parte e della Francia dall’altro, con per l’aria già il sentore della non lontana Rivoluzione Francese, si ritrovò al centro di pretese imperiali che ne tormentarono gli ultimi anni di papato. Prima fra tutte la richiesta, sotto minaccia di scisma, della soppressione dei gesuiti. Si macerò a lungo. Ma alla fine questo dolce e mite papa fece sapere che forse avrebbe preferito dimettersi. Un improvviso infarto, in una notte di tribolazione, lo liberò dal peso del pontificato.

La situazione pessima dovette ereditarla il suo successore, Clemente XIV: centro della contesa ancora la soppressione della Compagnia di Gesù. Alla fine cedette. Ma poi i fantasmi, il rimorso, la paura presero il sopravvento sul suo animo scosso e ne turbarono la ragione. E fra manie di persecuzione e paure ossessive di avvelenamento, stante pure la salute che precipitava a vista d’occhio, pensò anche di “salvarsi” tagliando la testa al toro e rinunciando al pontificato. Qui pure, non ce ne fu bisogno: la sua mente vacillò ancora, i suoi mali degenerarono e lo portarono in breve, nonostante la giovane età, alla tomba.

Arrivarono tempi peggiori, scoppiò la Rivoluzione Francese e poi venne anche Napoleone. Sul soglio di Pietro da un ventennio c’era Pio VI, uomo di mondo, non era proprio un mistico. Le truppe napoleoniche scesero a Roma e si vide qualcosa che non si era più visto dai tempi degli imperatori romani: il papa fu arrestato e deportato in Francia. Napoleone aveva idea di farla finita una volta per tutte col papato e di fare del pontefice un cappellano di corte dell’imperatore. Pio era ormai ultraottantenne, deportato in carrozza sino in Francia durante un inverno gelido, ne risentì gravemente la sua salute. Arrivò quasi morto a destinazione, ma sopravvisse circa un anno ancora, da prigioniero. Nel frattempo la sua fede divenne esemplare, docile accettò il martirio. In realtà aveva avuto dal primo momento idea di dimettersi per fare a Napoleone l’affronto di ritrovarsi con un semplice prete fra le mani. Se non lo fece è perché non poté: il collegio cardinalizio era stato disperso, nessuno aveva notizie di nessuno, troppi erano in stato d’arresto o controllati a vista, altri erano passati col nemico. Mancandogli notizie certe su quale fosse la situazione a Roma e dintorni, preferì non commettere l’imprudenza di dimissioni “al buio”, che avrebbero potuto favorire elezioni non legittime ad opera dei francesi e di quant’altri. Morì nel 1799 eroicamente, docile agnello sacrificale, da prigioniero, da martire e da santo. Soprattutto da papa regnante sebbene impossibilitato a regnare.

Pio VII, immediato successore, si trovò nella stessa identica situazione. Già abate di San Paolo a Roma, monaco amabile e timido come pochi, è eletto papa a Venezia, nel 1800, in un conclave di fortuna. Già conscio che stava per salire sul calvario. E fin da subito con la segreta intenzione, qualora fosse stato come il predecessore deportato, di rinunciare. Ma si trovò nella stessa condizione di Pio VI, quando fu arrestato e deportato una prima e una seconda volta. E stavolta per lunghi anni. Una abdicazione in quel frangente sarebbe stata un’arma ulteriore consegnata nelle mani di Napoleone. Decise di optare per il “martirio della pazienza”, così congeniale al suo carattere: prigioniero nella gabbia d’oro che qua e là Napoleone gli metteva a disposizione tenendosene la chiave, mite e fermo, tenendosi in pectore l’eventualità di abdicazione, rispose alle pressioni imperiali con una snervante resistenza passiva. Che rese sterile il gesto sacrilego dell’imperatore e al contempo aumentò ovunque la popolarità del papa e il prestigio del papato proprio nel momento in cui sembrava divelto per sempre. La sua pazienza era stata premiata, ritornando trionfalmente a Roma.

La vicenda travagliata di Pio IX la conosciamo: è l’ultimo papa re, e vede crollare sotto i suoi occhi lo Stato Pontificio, sotto le truppe piemontesi. Sino a proclamarsi “prigioniero del Vaticano”. In questo che fu il più lungo pontificato della storia, troppi eventi catastrofici si abbatterono sul papato e sul papa, che si vide costretto a fuggire, vestito da semplice prete, a Gaeta, in esilio. Pensò anche all’eventualità, dopo la presa garibaldina di Roma, di trasferire altrove le insegne del papato. Ma di una cosa era certo, come gli altri Pio: se in qualche modo i piemontesi avessero osato violare la sua persona e la sua libertà personale, si sarebbero ritrovati in mano “non un papa ma don Giovanni Mastai, al quale oltretutto nemmeno funziona una gamba… voglio proprio vedere che se ne fanno…”. Perché nel frattempo avrebbe già rinunciato.

Ancora a un altro Pio toccò regnare in tempi maledetti. A Pio XII spettò affrontare l’epoca della grandi dittature ideologiche, il comunismo e il nazismo. Essendo la Seconda Guerra mondiale giunta al punto di non ritorno, avendo sentore dell’attività sotterranea della Santa Sede a danno del nazismo, Hitler mise nero su bianco un piano segreto per invadere il Vaticano e deportare in Germania il papa. Pacelli lo seppe. E subito preparò delle bolle, che consegnò a pochi fedelissimi come il cardinale Maglione e suor Pascalina: erano l’atto di rinuncia in caso di arresto per mano nazista. E precisò loro: “Vengano pure a portarmi via. Ma dovranno incatenarmi; non basta, mi devono trascinare fuori incatenato, perché io di mia volontà non mi muovo da qui. E anche qualora mi trascinassero fuori incatenato, si ritroverebbero a trascinare in Germania il cardinale Pacelli, che conta niente, non Pio XII". In realtà, i suoi propositi di dimissioni non si fermarono qui. Passata la guerra, venuti tempi apparentemente migliori, aumentati gli anni, diminuita la salute, aveva seriamente prospettato a suor Pascalina il suo proposito di presto o tardi dimettersi, e ritirarsi in un monastero immerso nel verde che con cura aveva scelto. In Svizzera.

Si arrivò a Paolo VI. Quando a Concilio chiuso, invece che una giornata di sole, come ci si aspettava, ne era giunta una “plumbea”, a smentire ogni facile ottimismo. E per giunta, “il fumo di satana da qualche fessura” era entrato nel Santo Edificio. La terra sembrò aprirsi sotto i piedi di Paolo. Ormai stanco, deluso, pieno di amarezza, con la salute sempre più flebile e le artrosi che non gli davano pace, con un papato giunto ai minimi storici di prestigio, prossimo agli 80, aveva praticamente preso la sua decisione. Aveva intenzione di rinunciare e ritirarsi in solitudine nell’abbazia di Montecassino, sotto il suo pontificato inaugurata, dopo la ricostruzione. Ne volle parlare per scrupolo col suo amico, il gran filosofo cattolico e accademico di Francia Jean Guitton. Il quale, turbato ma fermo, rispose: “Santità, il papato non è una carica, è una paternità. Non ci si dimette da una paternità”.