Di Maio, la nomina all’Ue è l’ultimo “regalo” di Draghi
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Decisa formalmente da Borrell, la nomina di Di Maio come inviato speciale dell’Ue per il Golfo Persico ha in realtà un unico padre: Mario Draghi. Una polpetta avvelenata, visto il profilo dell’ex ministro, per l’Italia e il governo Meloni, che ha pure le sue responsabilità.
La nomina di Luigi Di Maio come inviato speciale dell’Unione Europea per il Golfo Persico era nell’aria da mesi. Era stata stoppata lo scorso novembre perché sarebbe apparsa un affronto al governo Meloni, appena insediato. Ora che il nuovo esecutivo è pieno di grattacapi e circondato da nemici interni e internazionali, i tempi sono apparsi maturi ai promotori di quella nomina per renderla definitiva e quasi ufficiale.
La proposta di creare la figura dell’inviato speciale dell’Ue per il Golfo Persico era arrivata a luglio 2022 e la candidatura di Di Maio era stata presentata qualche mese dopo, a settembre-ottobre, dal governo Draghi già in uscita. Il nome di Di Maio entrò poi nel gruppo ristretto di candidati (con l’ex ministro degli Esteri cipriota Markos Kyprianou, con lo slovacco ex inviato delle Nazioni Unite per la Libia Jan Kubis e l’ex commissario europeo Dimitris Avramopoulos, greco, lambito dal Qatargate).
Trattandosi di un incarico creato ex novo, bisognerà riempirlo di compiti, al fine di giustificarne l’esistenza, che è peraltro assai onerosa, visto che Di Maio percepirà 12.000 euro netti al mese, con trattamento fiscale agevolato, viaggi interamente rimborsati e un ricco portafoglio per foraggiare il suo staff. Bruxelles ha deciso di istituire questa nuova carica per affrontare la crisi energetica e consentire al Vecchio Continente di individuare altri fornitori di fonti energetiche come Emirati Arabi e Qatar. Qualcuno sommessamente ricorda che gli inviati speciali europei in aree specifiche del mondo, dalla Libia all’Afghanistan, non hanno mai avuto grande fortuna, non hanno cioè mai potuto incidere concretamente sulle politiche dei Paesi europei. È anche una questione di autorevolezza e di capacità di farsi ascoltare; e storicamente i vertici dell'Ue e i loro rappresentanti non hanno mai brillato nel mondo arabo. Azzardato prevedere che il nostro ex ministro degli Esteri possa invertire la tendenza.
La nomina di Di Maio, decisa formalmente da Josep Borrell, l’alto rappresentante per la politica estera europea, e che tante polemiche sta scatenando in Italia e anche in alcuni Stati europei, ha in realtà un unico padre: Mario Draghi. Potremmo anzi dire che si tratta della sua (ultima?) “polpetta avvelenata” al governo Meloni e al nostro Paese in generale.
SuperMario non vedeva l’ora di andarsene da Palazzo Chigi, questo è noto. Puntava al Quirinale ma gli è andata male e, dal giorno in cui si è capito che dopo Mattarella ci sarebbe stato ancora Mattarella, ha deciso di sfilarsi. Ha usato Di Maio per indebolire Conte e i Cinque Stelle, peraltro senza riuscirci, e l’incarico che ha fatto avere a “Giggino” in Europa è una ricompensa per quel gesto. Peccato, però, che quel gesto non fu un’operazione per il bene dell’Italia ma solo una dimostrazione di cinismo e trasformismo della peggior specie. Di Maio è nato con i 5 Stelle, non avrebbe fatto politica senza i 5 Stelle e ha ricoperto numerosi incarichi istituzionali in quanto espressione del Movimento. Il suo nuovo partito “Impegno civico” ha raccolto lo 0,4% e si è disintegrato il giorno dopo le elezioni del 25 settembre proprio perché sonoramente bocciato dagli elettori. Con questa ostinazione sul nome di Di Maio, Draghi prova anche a seminare zizzania nel nostro Paese e a turbare i rapporti nella maggioranza, mettendo peraltro a nudo la scarsa incisività del nostro esecutivo sul piano internazionale.
Eh già, perché la responsabilità dell’imminente incoronazione ufficiale di Di Maio quale inviato dell’Ue per il Golfo, è anche del nostro esecutivo. È vero che tecnicamente Meloni e soci non hanno la possibilità di intervenire e di stopparla, ma è altrettanto innegabile che con una solenne presa di distanza da questa decisione inopportuna di Borrell si sarebbe potuta misurare la capacità del nostro Paese di farsi ascoltare ai tavoli europei. In altri termini, se il premier italiano avesse alzato la voce nei confronti dei vertici dell’Ue, questi ultimi, anche per ragioni di opportunità e di garbo, avrebbero potuto soprassedere e nominare per quel ruolo una persona più adeguata e con titoli. Di Maio non è neppure laureato, non è minimamente esperto di istituzioni e diplomazia, non è neppure lontanamente paragonabile a figure diplomatiche che l’Italia potrebbe candidare a ruoli del genere e non è stimato nel nostro Paese, come dimostra la sonora batosta elettorale rimediata solo qualche mese fa.
Non era mai successo nella storia politica del nostro Paese che uno dei ministri più importanti, rimasto al potere per anni ricoprendo ruoli di primo piano, venisse così sonoramente bocciato dagli elettori, dimostrando di non avere alcuna capacità di gestire quel potere. Gli italiani si sono indignati di fronte alle disinvolte capriole e agli strafalcioni continui di Di Maio e l’hanno espulso dalla vita pubblica. Analoga indignazione avrebbero potuto e dovuto mostrare gli attuali governanti italiani, che invece hanno preso le distanze dalla scelta di Borrell ma solo a parole e con dichiarazioni di circostanza e senza sbattere i pugni sul tavolo, quindi dimostrando scarsa autorevolezza e spiccata arrendevolezza.
La triste vicenda Di Maio è altamente diseducativa, soprattutto per le nuove generazioni. Accredita la visione di una politica che premia l’incompetenza, l’arrivismo e il trasformismo (in questo i tecnici alla Draghi dimostrano di non essere diversi dai mediocri politicanti) e alimenta il sospetto che il governo Meloni sia in molte situazioni la naturale prosecuzione del governo Draghi, visto che non riesce a liberarsi neppure delle sue eredità. E la nomina di Di Maio all’Ue è una delle più offensive e imbarazzanti eredità che SuperMario ha lasciato all’Italia e agli italiani.