Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Sant’Agnese da Montepulciano a cura di Ermes Dovico
VERSO IL VOTO

Deroghe e candidature, Renzi si affida ai dinosauri

Renzi alle prese col nodo candidature. Per sopravviere l'ex rottamatore è tra i principali sostenitori del salvataggio nelle liste dei cosiddetti dinosauri, cioè di coloro che hanno già collezionato un numero cospicuo di legislature.

Politica 15_01_2018

Visti i disastrosi sondaggi, il Pd le sta tentando tutte per scongiurare il rischio, per ora remoto, di arrivare addirittura terzo. Pressochè scontato il fatto che i Cinque Stelle saranno il primo partito, circolano anche previsioni nefaste per il Nazareno che vedrebbero i dem inseguire perfino una Forza Italia rianimata dall’iperattivismo di Silvio Berlusconi.

Poco più di un anno fa Matteo Renzi venne meno alla promessa fatta solennemente agli elettori di lasciare la vita politica e di dedicarsi ad altro in caso di sconfitta al referendum del 4 dicembre 2016. Ora, da segretario Pd e da aspirante premier, deve però evitare al suo partito un’ultima debacle, dopo quella alle amministrative del 2017, e quindi corre ai ripari. In che modo?

Oltre ad alimentare la fiera della demagogia, con promesse mirabolanti in campo fiscale e sociale, impossibili da realizzare in base ai più elementari principi del buon senso, oltre che dell’economia, il buon Matteo, che ogni giorno elogia le cose fatte dall’attuale governo pur non essendo lui a guidarlo, ora è alle prese col nodo candidature.

I collegi sicuri per il Pd sono davvero pochini e l’inasprirsi della rivalità con Liberi e Uguali toglie ulteriori chance ai suoi candidati. Ma tra giglio magico e fedelissimi dell’ex sindaco di Firenze diventa davvero difficile accontentare tutti. Di qui i malumori dei capicorrente, in particolare dei ministri Dario Franceschini e Andrea Orlando, e le perplessità di altri titolari di dicasteri pesanti, Pier Carlo Padoan e Marco Minniti, divisi tra un impegno pancia a terra in campagna elettorale, col rischio di sfigurare, e una comoda e fredda neutralità per non precludersi un ritorno in esecutivo in caso di stallo e di altri governi di compromesso.

Ma se il Pd vuole frenare l’emorragia di consensi che i sondaggi continuano implacabilmente a documentare quanto meno deve iniziare a spendere il nome e la figura di Paolo Gentiloni, accanto a quella di Matteo Renzi o addirittura in sostituzione. Se ne sono accorti un po’ tutti, perfino dal Quirinale arrivano in modo informale incoraggiamenti a valorizzare l’aplomb dell’attuale inquilino di Palazzo Chigi, evitando una masochistica sovraesposizione renziana. E l’auspicio in casa dem è che se ne accorga lo stesso Matteo, rassegnandosi all’idea che il Pd non farà sfracelli alle prossime elezioni, potrà solo contenere le perdite e al massimo partecipare a un governo di larghe intese, senza necessariamente presiederlo, e in ogni caso non con lui.

Fa peraltro specie che l’ormai ex rottamatore sia tra i principali sostenitori del salvataggio nelle liste dei cosiddetti dinosauri, cioè di coloro che hanno già collezionato un numero cospicuo di legislature. Per loro si profila l’esclusione dal prossimo giro elettorale, a meno che non si intervenga con le fatidiche deroghe.

E Matteo Renzi, che arrivò alla guida del Pd e al governo promettendo rinnovamento e rottamazione, è proprio colui il quale, per spudorati calcoli opportunistici, intende ricandidare alcuni pezzi di vecchia classe dirigente.

Domani all’ordine del giorno della riunione della direzione del partito, oltre al programma elettorale, c’è anche l’approvazione delle deroghe alla regola del numero massimo di anni di presenza in Parlamento (15). Ne avranno bisogno, oltre a Gentiloni e Minniti, ma anche molti big, tra cui Roberto Giachetti, Luigi Zanda e i ministri Roberta Pinotti e Dario Franceschini. Senza dimenticare Ermete Realacci e Piero Fassino. Anna Finocchiaro e Rosi Bindi, per prevenire polemiche, avendo superato il limite di mandati, hanno già fatto sapere di non essere interessate a ricandidarsi.

Il caso più controverso riguarda proprio l’ex sindaco di Torino, che ha già alle spalle cinque legislature come deputato e arriva da un insuccesso alle amministrative del giugno 2016, che lo hanno visto soccombere nella sfida con l’attuale primo cittadino del capoluogo piemontese, la pentastellata Chiara Appendino. Matteo Renzi aveva affidato mesi fa a Piero Fassino il compito di ricucire le divisioni nel centrosinistra ma i risultati sono stati alquanto scarsi, viste le vicende Grasso e Bonino e i mugugni che serpeggiano tuttora nel perimetro di quell’area politica. Nonostante tutto, anche a rischio di sfidare un giustamente riottoso Pd piemontese, Matteo Renzi intende imporre la candidatura al Senato di Fassino, emblema della vecchia guardia di scuola comunista.

Dunque lo strumento della deroga viene utilizzato in casa Pd come via di fuga per eludere regole solennemente approvate dagli organi di partito. Con inevitabili ripercussioni sulla credibilità delle procedure di selezione del ceto politico dem. Chi stabilisce chi può essere candidato nonostante abbia superato il vincolo dei tre mandati pieni? In base a quali requisiti è giusto concedere le deroghe? Lo stesso Renzi non aveva più volte detto che la politica si può fare in mille modi, che il Paese si può servire in mille modi a prescindere dalle poltrone occupate? E allora perché imporre candidature di vecchie volpi della politica, perpetuando un sistema di potere che ha ormai fatto il suo tempo e che a sinistra, tanto quanto a destra, ha impedito il rinnovamento della classe dirigente? Non si capisce perché un ministro uscente debba automaticamente meritarsi la ricandidatura in Parlamento per il solo fatto di aver occupato un dicastero, tanto più che per fare bene il ministro ha finito certamente per sacrificare buona parte della sua attività di deputato e senatore.

In Italia si può diventare ministro anche senza fare il parlamentare e soprattutto chi lo è stato in legislature contrassegnate da esecutivi allargati e trasversali potrebbe benissimo restare fuori dalla mischia per poi eventualmente tornare spendibile in caso di prolungamento della stagione dei governi di “salvezza nazionale”. Mettere un vincolo di durata e poi eluderlo sistematicamente a ogni vigilia del voto significa prendere in giro iscritti e simpatizzanti e alimentare il circuito perverso della sfiducia nella classe politica.