Decreto filiazione, un'altra spallata al matrimonio
Cancellata definitivamente la distinzione tra figli naturali e legittimi. Per Letta è "un fattore di civiltà", in realtà è soltanto un altro passo che rende insignificante il matrimonio: non cambia la situazione dei figli, ma si equipara coniugi e conviventi.
"Mai più figli divisi in categorie di serie A e di serie B. Da oggi esistono solo figli senza aggettivi. Finiscono i drammi umani che ci sono stati nel passato. Non esistono più aggettivi vicino alla parola figlio, ma figli e basta. È un fattore di civiltà". Questo il commento del premier Enrico Letta in una conferenza stampa tenuta il 12 luglio per presentare “un decreto legislativo di revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione che modifica la normativa al fine di eliminare ogni residua discriminazione rimasta nel nostro ordinamento tra i figli nati nel e fuori dal matrimonio, così garantendo la completa eguaglianza giuridica degli stessi”, come si legge in una nota del Consiglio dei Ministri.
In realtà questo decreto legge porta semplicemente a compimento ciò che era già stato disposto con la recente legge 219 del 10 dicembre del 2012 la quale, rivoluzionando completamente la materia della filiazione naturale così come era stata disciplinata nel codice civile, aveva già in quel testo soppresso le duplice espressione “figlio naturale-figlio legittimo” sostituendola semplicemente con la parola “figlio”, dato che – come si legge nel modificato art. 315 c.c. – “Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”.
La legge 219, nel solco di precedenti interventi legislativi analoghi, riconosceva ai figli naturali – nati fuori cioè dal matrimonio – alcuni diritti propri dei figli legittimi – concepiti cioè in costanza di matrimonio. Inoltre questa legge delegava il Governo ad eliminare entro sei mesi ogni differenza sostanziale e formale tra figli naturali e legittimi in qualsiasi disposizione normativa che non era stata ancora toccata dall’intervento dei legislatori passati. E così il governo Letta ha fatto, equiparando in toto i figli naturali con quelli legittimi. Da oggi in merito ad alimenti, mantenimento, successione, donazioni etc. figli naturali e non pari sono.
Tutti ovviamente plaudono a questa modifica del diritto di famiglia, ma in realtà si tratta di un ulteriore vulnus alla famiglia fondata sul matrimonio. Perché il legislatore che redasse il codice civile volle inserire questa distinzione tra figli naturali riconosciuti e figli legittimi? Per il semplice motivo che il principio di uguaglianza predica che situazioni uguali devono essere disciplinate in modo identico, e situazioni differenti in modo diverso.
Come ha scritto Mario Palmaro nell’articolo “Incesto legale, ultima frontiera” (Il Timone, Gennaio 2013) è di lapalissiana evidenza che “di fronte a situazioni di fatto differenti, segue un legittimo trattamento giuridico differente, anche quando queste ‘diversità’ non siano ‘imputabili’ ai diretti interessati. Del resto, anche i figli dei divorziati e dei separati non hanno colpa della scelta dei loro genitori: perché nessuno prova a limitare il diritto al divorzio nell’interesse della prole?”. Non si possono dunque riconoscere diritti propri del vincolo matrimoniale a soggetti che non vivono nella realtà matrimoniale.
Un atto discriminatorio dunque? No, per nulla. Infatti ai figli nati fuori dal matrimonio da sempre sono stati riconosciuti i diritti fondamentali: vita, salute, educazione, libertà, etc. Per lo Stato italiano non ci sono quindi figli di serie A e serie B (eccezion fatta per il figlio abortito e quello nato in provetta). Ma è una contraddizione assegnare ai figli di genitori non sposati, che non si sono assunti nessun particolare obbligo giuridico, quei diritti che sono frutto invece di un impegno reciproco delle coppie coniugate. Vero dunque che tutti i figli sono uguali, ma non sono uguali tutte le relazioni da cui vengono ad esistenza i figli.
Qualcuno potrebbe obiettare che questo trattamento a doppio binario faceva pagare ai figli le scelte personali dei padri. L’obiezione non fa una grinza. Infatti i genitori devono essere responsabili delle proprie scelte anche nei confronti dei figli. Se due conviventi non si vogliono sposare, sappiano che questa decisione inciderà anche sui figli. Se Tizio sceglie di emulare le gesta di Don Giovanni e ci scappa il bebè, si assuma poi le responsabilità del suo gesto e non chieda che lo Stato metta una toppa al suo posto. I figli giustamente vengono considerati creature innocenti e quindi spetta ai genitori tutelarli, creando quelle condizioni di vita che garantiscano loro una esistenza serena.
Non si chieda allo Stato di fare quello che è compito dei padri e delle madri. Lo Stato non è nostra mamma. Se lo si fa, i genitori vengono ancor di più deresponsabilizzati.
Il nostro ordinamento giuridico conservava uno status giuridico differente tra figli naturali e non proprio perché voleva educare i cittadini alla consapevolezza che l’unico luogo adatto per mettere al mondo i propri figli è il matrimonio. La distinzione operata era a favore del matrimonio ed insieme rappresentava un deterrente per le unioni libere. Era insomma uno dei modi attraverso cui il legislatore invitava a realizzare una situazione di vita stabile e non precaria, situazione che andava a vantaggio di tutti: genitori, figli, società civile e Stato.
Ora invece questa ulteriore modifica legislativa farà nuovamente da sponda alle convivenze e andrà a detrimento del matrimonio, vero soggetto discriminato dall’iniziativa del governo Letta. Infatti se i figli dei conviventi avranno gli stessi ed identici diritti dei figli nati nel matrimonio perché sposarsi? Da una parte quindi viene meno un altro sprone che poteva orientare i conviventi verso il matrimonio. Dall’altra in punta di diritto la convivenza assomiglia sempre di più all’istituto matrimoniale, dato che quest’ultimo viene svuotato dall’interno dei suoi diritti peculiari che vengono regalati a chi non si è assunto nessun onere particolare. Se i figli naturali e legittimi pari sono, così anche conviventi e coniugi.