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EDITORIALE

Da Otranto agli Indios, un esempio che ci interroga

Gli ottocento martiri di Otranto, madre Laura Montoya e madre Maria Guadalupe García Zavala: ieri le prime canonizzazioni di Papa Francesco. Che ha posto l'accento sulla "perseveranza apostolica".

Editoriali 13_05_2013
Il Papa in piazza San Pietro

Nel Regina Coeli in Piazza San Pietro del 12 maggio Papa Francesco ha salutato «i partecipanti alla "Marcia per la vita" che ha avuto luogo questa mattina a Roma», ricordando insieme «la raccolta di firme che oggi si tiene in molte parrocchie italiane, al fine di sostenere l’iniziativa europea "Uno di noi", per garantire protezione giuridica all’embrione». L'invito «a mantenere viva l’attenzione di tutti sul tema così importante del rispetto per la vita umana sin dal momento del suo concepimento», «tutelando ogni essere umano sin dal primo istante della sua esistenza», e l'appuntamento che il Papa ha dato a «un momento speciale per coloro che hanno a cuore la difesa della sacralità della vita umana [...], la "Giornata dell’Evangelium Vitae", che avrà luogo qui in Vaticano, nel contesto dell’Anno della fede, il 15 e 16 giugno prossimo» hanno giustamente attirato l'attenzione dei media.

Ma il 12 maggio per Papa Francesco è stata anzitutto la giornata delle sue prime canonizzazioni, con tanti nuovi santi: gli ottocento Martiri di Otranto, Madre Laura Montoya (1874-1949) e Madre María Guadalupe García Zavala (1878-1963). Anche se le beatificazioni - a differenza delle canonizzazioni - non sono più celebrate dai Pontefici, il Papa ha voluto ricordare nel Regina Coeli anche la beatificazione, avvenuta sabato 11 maggio in una cerimonia presieduta dal cardinale Tarcisio Bertone, del sacerdote di Casale Monferrato monsignor Luigi Novarese (1914-1984), funzionario della Segreteria di Stato vaticana e poi della Conferenza Episcopale Italiana e fondatore del Centro Volontari della Sofferenza. Papa Francesco ha voluto celebrare nel nuovo beato un «prete esemplare, che ha saputo rinnovare la pastorale dei malati rendendoli soggetti attivi nella Chiesa», ricordando di monsignor Novarese soprattutto il programma che mirava a fare del malato un soggetto e non solo un destinatario dell'apostolato e del l'evangelizzazione.

Nell'omelia della Messa di canonizzazione il Pontefice è partito dal primo martire, santo Stefano, che è definito dagli Atti degli Apostoli «pieno di Spirito Santo». Questo significa che «tutta la sua persona, la sua vita era animata dallo Spirito di Cristo risorto, tanto da seguire Gesù con fedeltà totale, fino al dono di sé».

I martiri uccisi dai turchi a Otranto nel 1480 - di cui La Nuova Bussola Quotidiana ha già raccontato la storia -, ha ricordato il Papa, «rifiutarono di rinnegare la propria fede e morirono confessando Cristo risorto. Dove trovarono la forza per rimanere fedeli? Proprio nella fede, che fa vedere oltre i limiti del nostro sguardo umano, oltre il confine della vita terrena, fa contemplare "i cieli aperti" - come dice santo Stefano – e il Cristo vivo alla destra del Padre». Come altri martiri, i santi di Otranto ci mostrano e ci ricordano che «la fede che abbiamo ricevuto [...] è il nostro vero tesoro», più prezioso della vita stessa. E i martiri - Papa Francesco ne ha già parlato altre volte - ci sono anche oggi. «Mentre veneriamo i Martiri di Otranto, chiediamo a Dio di sostenere tanti cristiani che, proprio in questi tempi e in tante parti del mondo, adesso, ancora soffrono violenze, e dia loro il coraggio della fedeltà e di rispondere al male col bene».

Laura Montoya, che è diventata la prima santa colombiana, fondò le Suore Missionarie di Maria Immacolata e di Santa Caterina da Siena, popolarmente note come Missionarie catechiste degli indios, che hanno evangelizzato decine di tribù indigene in America Latina, spesso in condizioni di difficoltà estrema. Il Papa l'ha definita «strumento di evangelizzazione prima come insegnante e poi come madre spirituale degli indigeni, ai quali infuse speranza, accogliendoli con l’amore appreso da Dio e portandoli a Lui con una efficacia pedagogica che rispettava la loro cultura e non si contrapponeva ad essa».
L'esperienza di santa Laura Montoya può sembrare, per così dire, molto specializzata. Ma in ogni santo c'è un insegnamento che vale per tutti noi, e quello di Santa Laura c'invita a «essere generosi con Dio, a non vivere la fede da soli - come se fosse possibile vivere la fede in modo isolato -, ma a comunicarla, a portare la gioia del Vangelo con la parola e la testimonianza di vita in ogni ambiente in cui ci troviamo». La particolare esperienza della santa degli indios c'insegna pure «a vedere il volto di Gesù riflesso nell’altro, a vincere indifferenza e individualismo, che corrodono le comunità cristiane e corrodono il nostro cuore».

Ma Papa Francesco è anche tornato, a proposito della Montoya, sul tema a lui caro della differenza fondamentale fra la Chiesa e le organizzazioni umanitarie. Santa Laura agli indios non portò solo aiuti e promozione umana: portò il Vangelo, mostrando che con i destinatari di ogni forma di evangelizzazione dobbiamo condividere «ciò che abbiamo di più prezioso, che non sono le nostre opere o le nostre organizzazioni, no! Quello che abbiamo di più prezioso è Cristo e il suo Vangelo».

Santa María Guadalupe García Zavala, messicana, fu cofondatrice delle Serve di Santa Margherita Maria e dei poveri. Le sue suore, operando negli ospedali messicani durante la persecuzione anti-cattolica del presidente Plutarco Elías Calles (1877-1945) - contro cui insorsero i Cristeros nella guerra civile del 1926-1929 -, riuscirono a nascondere, rischiando la vita, vescovi e sacerdoti che il regime voleva arrestare. Santa María Guadalupe, «Lupita», che veniva da una famiglia benestante, lasciò - ha detto il Papa - la sua tranquillità «- quanto danno arreca la vita comoda, il benessere; l’"imborghesimento" del cuore ci paralizza –, rinunciando a una vita comoda per seguire la chiamata di Gesù». Da allora diede l'esempio di una totale dedizione ai malati: «si inginocchiava sul pavimento dell’Ospedale davanti agli ammalati e agli abbandonati per servirli con tenerezza e compassione. E questo si chiama: "toccare la carne di Cristo". I poveri, gli abbandonati, gli infermi, gli emarginati sono la carne di Cristo. E Madre Lupita toccava la carne di Cristo e ci ha insegnato questo modo di agire: non vergognarsi, non avere paura, non provare ripugnanza a "toccare la carne di Cristo"!».

La virtù di Santa Lupita era la «perseveranza apostolica (hypomoné)», che consiste nell' «amare come Gesù ci ha amato, e questo comporta non chiudersi in se stessi, nei propri problemi, nelle proprie idee, nei propri interessi, in questo piccolo mondo che ci arreca tanto danno, ma uscire e andare incontro a chi ha bisogno di attenzione, di comprensione, di aiuto, per portagli la calorosa vicinanza dell’amore di Dio, attraverso gesti di delicatezza, di affetto sincero e di amore».

Alla fine la «hypomoné» è la caratteristica di tutti i santi, e pone «anche domande alla nostra vita cristiana: Come io sono fedele a Cristo? Portiamo con noi questa domanda, per pensarla durante la giornata: come io sono fedele a Cristo? Sono capace di "far vedere" la mia fede con rispetto, ma anche con coraggio?». Il coraggio della carità di santa Lupita, il coraggio dell'evangelizzazione di santa Laura Montoya, il coraggio dei santi Martiri di Otranto: non sono esempi lontani e inarrivabili, sono esortazioni a una fedeltà e a una testimonianza quotidiana che coinvolge tutti noi.