Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
I MARTIRI E LA PANDEMIA

Cristiani perseguitati: «Più che il virus soffrono lo stop delle Messe»

«Medio Oriente e in Africa, il coronavirus non si è manifestato in forme aggressive. Ma qui la gente ha subito ben di peggio perciò teme molto meno il virus. Anche per questo, la rinuncia alla Messa e alla vita comunitaria è qualcosa di molto più difficile da accettare rispetto all’Italia e all’Europa». Così Alessandro Monteduro, direttore di Aiuto alla Chiesa che Soffre, spiega a La Nuova Bussola Quotidiana.

Libertà religiosa 24_04_2020

Il coronavirus non ha risparmiato nemmeno il Medio Oriente, l’Asia, l’Africa, comprese regioni ad alta conflittualità come la Siria o la Nigeria. L’impatto della pandemia è stato più lieve che in Europa o in America, non tanto per i numeri più bassi (in Siria appena 39 contagi e 3 vittime) quanto perché le popolazioni afro-asiatiche sono temprate da difficoltà ed emergenze – sottosviluppo, guerre, persecuzioni religiose – al cui confronto il virus potrebbe anche apparire poca cosa. In questi paesi, tuttavia, la rinuncia alla Messa e alla vita comunitaria è stato qualcosa di molto più difficile da accettare rispetto all’Italia e all’Europa. La Nuova Bussola Quotidiana ne ha parlato con Alessandro Monteduro, direttore della sezione italiana di Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs), che, con l’occasione, ha sottolineato l’eccellente risposta della rete internazionale di preghiera per la cessazione della pandemia, posta in essere dalla fondazione pontificia.

Dottor Monteduro, quali sono le dimensioni della pandemia nei paesi afro-asiatici e, in particolare, in Medio Oriente?
Dalle informazioni di cui dispongo, finora, sia in Medio Oriente che in Africa, il virus non si è manifestato nelle forme aggressive che abbiamo visto in Europa. Qualcuno potrà obiettare che in quei paesi non esiste un sistema autorevole di rilevamento e di “tamponamento” come da noi: osservazione legittima ma, per quanto anche in Siria e altrove si sia registrato un sensibile incremento dei ricoverati, non si è assistito alla saturazione delle strutture ospedaliere che hanno caratterizzato, ad esempio, il Nord Italia, allorquando i focolai si sono dispiegati in tutta la loro aggressività.

Nei paesi in guerra, c’è il rischio di una nuova emergenza umanitaria all’interno dell’emergenza già esistente?
In Siria, come pure in Iraq, quanto avvenuto negli ultimi dieci anni ha favorito l’esodo dei giovani: sono stati però i più anziani a incoraggiare figli e nipoti ad andare via, per dare loro la possibilità di ricostruirsi una vita. Nella comunità cristiana siriana, almeno il 50% (percentuale che sale a circa due terzi in aree come quella di Aleppo) è ormai composto di soli anziani dai 65-70 anni in su, che vivono privi di una rete di protezione familiare: oggi questa rete si limita ormai ai videocollegamenti con i figli o i nipoti che hanno la ventura di giungere in Giordania, in Turchia o in Europa. Il grande timore del clero locale è che, se il virus dovesse diventare aggressivo come lo è in Italia, rischierebbe di falcidiare la comunità cristiana più di altre, proprio per via dell’alta età media.

In popoli che hanno conosciuto l’inferno della guerra e della persecuzione, quanta paura infonde una pandemia di coronavirus?
Pensare che, per quelle realtà del pianeta che hanno vissuto anni e anni di massacri, il coronavirus possa suscitare le stesse preoccupazioni e angosce che ha suscitato in Occidente, sarebbe quasi un’offesa nei loro riguardi. Che si parli della Siria o del Burkina Faso (dove mi sono recato a febbraio per visitare i campi profughi, proprio quando a Codogno e nel bergamasco venivano fuori i primi contagi), a mio modesto avviso, è inverosimile pensare che possano essere spaventati da un virus, che, da quelle parti, non è ancora in forma pandemica. Stiamo parlando di popolazioni che hanno subito le conseguenze di bombardamenti e di un embargo che, tuttora, non consente loro nulla. Quando sono stato ad Aleppo, la cosa che più mi è rimasta impressa e che ho sempre raccontato, è stato vedere file come quelle che in questi giorni vediamo nei nostri supermercati ma senza alcun distanziamento sociale, solo per acquistare una bombola di gas, perché stava per arrivare il freddo. In quella regione l’inverno è piuttosto rigido e vedere gente affrontarlo senza mezzi di riscaldamento, confidando solo sulle coperte, e in abitazioni poco confortevoli, fa capire quanti morti di freddo e di stenti può aver provocato, assieme agli inevitabili disagi sanitari. Ovviamente, non credo che questi popoli accolgano fatalisticamente il virus come un bicchiere d’acqua fresca, però bisogna avere chiaro il contesto: per un popolo martoriato da anni di guerre e sanzioni economiche, gli effetti del virus saranno prevedibilmente meno forti rispetto a quanto accaduto da noi.

In particolare in Terra Santa, la sospensione dei pellegrinaggi avrà rappresentato un danno incalcolabile per le comunità cristiane…
I cristiani di Terra Santa soffrivano già da prima, perché anche loro sono vittime di un’emigrazione forzata. Basti pensare alla sola Betlemme dove un tempo i cristiani erano il 50% e oggi sono solo il 2-3%. Per loro, i pellegrinaggi e il turismo rappresentavano l’unica vera fonte di reddito. Per gli artigiani cristiani che realizzano quegli splendidi oggetti religiosi in legno (rosari, crocifissi, icone), è chiaro che l’assenza di turisti rischia di dare il colpo di grazia. Da questo punto di vista, il contributo di Aiuto alla Chiesa che Soffre è una goccia nell’oceano rispetto a tutte le loro necessità attuali. Dalla Thailandia alle Filippine, dalla Nigeria al Burkina Faso, ovunque arrivano appelli di ogni sorta e, in questo ambito Acs cerca di sostenere le comunità cristiane e le missioni. Proprio nei giorni scorsi si discuteva di come rafforzare il nostro sostegno agli artigiani cristiani e alle famiglie della Terra Santa, che, ormai, non hanno più alcuna fonte di reddito. Speriamo che, quanto prima, i flussi di pellegrini possano riprendere: di cristiani ce n’erano già pochi, ora il rischio è che non ne rimanga più nessuno.

E in Africa com’è la situazione?
I casi di contagio conclamati sono circa 11mila. Credo si possa cominciare a tirare le somme e, con una certa prudenza, dire che non è avvenuto quello che tutti temevano, ovvero una diffusione aggressiva del virus in Africa, con una conseguente strage, per via delle carenze sanitarie che connotano quei paesi. È intuitivo pensare che il contagio non sia dilagato per ragioni climatiche, tuttavia il lockdown non ha risparmiato i paesi africani, impedendo anche lì a milioni di persone di lavorare. I problemi che stanno vivendo gli italiani, gli spagnoli, i tedeschi o i francesi, quei popoli li vivono in modo amplificato: alla povertà si aggiunge la pandemia. Noi di Acs, quando raccontiamo della sofferenza di questi popoli, facciamo sempre riferimento a una doppia P: Povertà e Persecuzione. Adesso si è aggiunta una terza P: la Pandemia, che mette in comune noi europei e quelle popolazioni.

La sospensione delle Messe ha coinvolto anche le comunità afro-asiatiche. Come viene vissuta questa privazione?
In generale, un po’ ovunque, sono state adottate le stesse misure delle nostre diocesi, con qualche eccezione, come nel Nord della Nigeria: a Maiduguri, come mi spiegava un caro amico sacerdote, padre Joseph Bature, si è celebrato con il distanziamento sociale. In altri paesi come il Pakistan, il Burkina Faso, la Repubblica Democratica del Congo o la Siria le Messe con il popolo sono sospese. Da quello che mi raccontano, i fedeli vivono questo impedimento quasi con sconcerto ma è uno sconcerto motivato dalle sofferenze da cui provengono. Stiamo parlando di fedeli che, negli ultimi anni, andando a Messa, non testimoniavano più soltanto la propria fede: quando due, tre o anche otto volte, le Messe vengono travolte da azioni terroristiche (penso al Pakistan e ai tanti attentati degli ultimi 7-8 anni), andarvi la domenica successiva in numero ancor maggiore non rappresentava più solo un atto di fede ma un vero atto di eroismo. Per coloro che hanno dovuto fronteggiare il terrorismo jihadista, non poter vivere la propria fede pubblicamente, come avevano fatto anche il giorno successivo alla deflagrazione di un kamikaze, non è semplice da comprendere. Il nemico visibile del terrorismo è percepito come più spaventoso del nemico invisibile del virus. Quindi, salvo eccezioni, in questi paesi i fedeli hanno accolto con rispetto e civiltà le decisioni delle conferenze episcopali ma con maggiore sconcerto rispetto ai paesi europei.

Un paio di settimane fa, Acs ha lanciato un appello alla rete internazionale di preghiera, per fermare la pandemia: qual è stata la risposta?
In tanti luoghi del mondo, è stata messa in moto un’azione corale di preghiera che ha coinvolto in primo luogo gli ordini contemplativi. Sono almeno 55 le comunità che si sono aggregate a questa preghiera no stop, talmente diffusa in tutti i fusi orari, che possiamo dire che in ogni momento c’è qualcuno che prega per la fine di questo flagello. Si prega in paesi, dove testimoniare la fede è un atto di eroismo, come il Mozambico o l’Indonesia, dove il jihadismo sta vivendo una recrudescenza terribile, e in paesi latino-americani dove la persecuzione non c’è: Perù, Cile, Argentina. Acs è anche questo: nei suoi 73 anni, nelle sue tre direttrici (preghiera, informazione, azione), la preghiera è sempre venuta al primo posto. Dopo aver pregato e informato, ci siamo posti il problema di come aiutare i nostri fratelli nella fede sofferenti. Speriamo quindi che i nostri 5 milioni di euro stanziati in aprile, possano diventare 10 milioni già a maggio, 15 milioni a giugno, ecc. Prima di questo, però, c’è l’aiuto nella fede. È stato meraviglioso, quando il coronavirus era un problema quasi solo italiano, riscontrare come dalla Siria, dall’Iraq, da tutti i monasteri e comunità di tutti i continenti, siano arrivate migliaia e migliaia di preghiere per noi italiani. Adesso la speranza è che, come ha detto domenica scorsa il Santo Padre, sia debellato anche il virus dell’indifferenza, cui ACS ha sempre dedicato attenzione. Spero davvero che, terminata questa pandemia, usciti dall’isolamento, dalla paura, dalla vulnerabilità, ci si ricordi di chi quell’isolamento, quella paura e quella vulnerabilità continuerà a sperimentarli tutta la vita.