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IL PARADISO RITROVATO/ 10

Così san Francesco diventa la "figura" di Cristo

Il concetto di figura ben rappresenta l’evento e la cultura cristiani. Tutti noi, secondo tale impostazione, siamo “figura” ovvero profezia di quello che saremo, poi, nell’aldilà, prefigurazione della condizione della nostra anima dopo la morte. Così, in Dante, san Francesco è figura di Cristo. Ecco perché.

Cultura 26_07_2015
Dante Alighieri

Il concetto di "figura" ben rappresenta l’evento e la cultura cristiani. «L’interpretazione figurale stabilisce fra due fatti o persone un nesso in cui uno di essi non significa soltanto se stesso, ma significa anche altro, mentre l’altro comprende o adempie il primo. I due poli della figura sono separati nel tempo, ma si trovano entrambi nel tempo, come fatti o figure reali; essi sono contenuti entrambi […] nella corrente che è la vita storica». Con queste parole il grande filologo tedesco Erich Auerbach (1892–1957) descrive il concetto di interpretazione figurale. Gli eventi dell’Antico Testamento sono, così, anticipazione, profezia, prefigurazione del Nuovo Testamento: l’antica Pasqua ebraica, che ricorda la liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù di Egitto, prefigura la Pasqua cristiana che celebra la Resurrezione di Gesù Cristo e la conseguente liberazione dell’uomo dalla schiavitù della morte e del peccato. 

Questo tipo di lettura si applica non solo al rapporto tra l’Antico e il Nuovo Testamento, ma si estende anche a personaggi vissuti nell’età cristiana.  Così san Francesco viene da Dante delineato come figura Christi, figura di Cristo, rappresentazione luminosa di Cristo in Terra. Dante così lo presenta nel canto XI del Paradiso: «Non era ancor molto lontan da l’orto,/ ch’el cominciò a far sentir la terra/ de la sua gran virtù alcun conforto:/ ché per tal donna, giovinetto, in guerra/ del padre corse, a cui, come a la morte,/ la porta del piacer nessun diserra;/ e dinanzi a la sua spirital corte/ et coram patre le si fece unito;/ poscia di dì in dì l’amo più forte./ Questa, privata del primo marito,/ millecent’anni e più dispetta e scura/ fino a costui si stette sanza invito». San Francesco è, qui, descritto con un linguaggio ibrido, a metà strada tra il codice cavalleresco-cortese e il registro erotico-carnale. Il primo aspetto che, senz’altro, accomuna il Santo a Cristo è il fatto che entrambi si sono sposati con la stessa donna, Madonna povertà, disprezzata e reietta da tutti. In maniera forte e provocatoria Dante scrive che il Santo ha avuto un rapporto fisico con madonna povertà («le si fece unito») davanti al vescovo e al padre. Colpisce questa audacia espressiva proprio nella terza cantica. 

San Francesco, proprio perché si rende imitatore della Bellezza incarnata, brilla dello splendore del Bello e conquista affascinando tutti coloro che incontra. È il fascino dell’amore, della letizia, della positività, del bene. Sentiamo ancora Dante per capire l’opera dell’Assisiate: «La lor concordia e i lor lieti sembianti,/amore e maraviglia e dolce sguardo/ facieno esser cagion di pensier santi:/ tanto che ‘l venerabile Bernardo/ si scalzò primo, e dietro a tanta pace/ corse e, correndo, li parve esser tardo». Continua la provocazione di Dante che spiega che molti seguono san Francesco, perché piace la sua sposa. Poi, Dante afferma che il Santo d’Assisi ha ricevuto tre conferme. La sua Regola è dapprima approvata oralmente da parte di  Innocenzo III nel 1213. Il figlio di Pietro di Bernardone «regalmente sua dura intenzione/ ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe/ primo sigillo a sua religione». Dieci anni più tardi, nel 1223, Onorio III approva la regola francescana per iscritto: «di seconda corona redimita/ fu per Onorio da l’Etterno Spiro/ la santa voglia d’esto archimandrita». Infine, san Francesco, tornato in Italia dopo essere stato dal sultano, «nel crudo sasso intra Tevero e Arno/ da Cristo prese l’ultimo sigillo,/ che le sue membra due anni portarno». A questo punto san Francesco è divenuto del tutto simile a Cristo in croce e a testimonianza di ciò porterà le stigmate fino alla morte. 

La rappresentazione del Santo viene condotta da Dante nel rispetto del realismo e della storicità del personaggio. Ecco chiarita meglio la natura della “figura”. Tutti noi, secondo tale impostazione, siamo “figura” ovvero profezia di quello che saremo, poi, nell’aldilà, prefigurazione dello status animae post mortem, cioè della condizione della nostra anima dopo la morte. Per ricostruire la figura di san Francesco Dante sceglie pochi aneddoti, ma con la vena da affabulatore che gli è propria li spiega come se fossero successi a lui, con la potenza dell’immedesimazione in un santo innamorato di Cristo. L’immagine che emerge del Santo è affascinante. Non certo sognatore, san Francesco è uomo pratico, di azione, rapido. La sua stranezza è operosa, caritatevole, entusiasta, infuocata di una passione ardente per Cristo. È la stranezza stessa di un seguace di Colui che è stato paradosso e segno di contraddizione per tutti. Una doppia prospettiva (esterna al cenacolo del santo ed interna, cioè consentanea alle ragioni profonde del suo operare) permette al lettore di leggere la storia francescana sotto l’ottica mondana e sub specie aethernitatis. Il domenicano san Tommaso conclude ricordando che il loro fondatore è stato un degno collega di san Francesco, per cui i suoi seguaci producono buoni frutti se rispettano le regole del fondatore e amano quanto lui amava. Purtroppo, però, molti frati sono diventati ghiotti di nuove vivande e così «tornano a l’ovil di latte vòte».

A conclusione di questo percorso che ha mostrato come san Francesco è figura di Cristo, è bene distinguere l’interpretazione figurale, centrale nel cristianesimo, dalla dimensione simbolica, anch’essa fondamentale nella cultura cristiana oltre che medioevale. Il simbolo consiste nell’uso di un animale, di una persona, di un oggetto per esprimere un’altra realtà più profonda. L’uso di un simbolo deve essere comprensibile e interpretabile dalle persone appartenenti alla comunità di un certo luogo e di un certo tempo. «I simboli sono quindi delle cose, dei gesti, delle parole che ci rendono alleati, parenti e che ci permettono di riconoscerci come tali. Essi non fanno altro che farci assumere la struttura di persone legate ad altre, membri di una famiglia, di un gruppo, di una comunità e che hanno in comune una storia, alcuni valori, degli usi, dei riti, dei monumenti» (M. Scouarriec, I simboli cristiani). 

Ogni epoca ha, quindi, i suoi simboli. Non tutte le epoche sono ricche di simboli allo stesso modo. Esistono culture più simboliche e altre meno simboliche. «Proprio perché, nella nostra cultura, si è data una certa priorità – e persino esclusività – ad un approccio materialista e commerciale per spiegare la vita e le relazioni, abbiamo alla fine svalorizzato e perduto la loro dimensione simbolica» (M. Scouarriec, I simboli cristiani). L’uomo contemporaneo non possiede a fondo l’intero simbolismo medioevale. Pensiamo, ad esempio, alla ricchezza di immagini presente nelle cattedrali. Scrive  al riguardo Régine Pernoud: «Non abbiamo ancora compreso a fondo il “perché” dei dettagli di architettura e di ornamento che le compongono; sappiamo soltanto che tutti questi dettagli avevano un senso. Neppure una sola di quelle figure che pregano, che fanno smorfie o che gesticolano sono state poste là arbitrariamente: tutte hanno il loro significato e costituiscono un simbolo, un segno».