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Stato di emergenza in Etiopia

Continua il flusso di profughi dall’Etiopia al Kenya, in gran parte donne e bambini

Dall’inizio di marzo migliaia di civili sono in fuga dalla regione Oromia dell’Etiopia, dove sono in corso combattimenti tra esercito e Fronte di liberazione Oromo, e chiedono asilo in Kenya

Migrazioni 19_03_2018

Dall’inizio di marzo l’Etiopia ha dichiarato lo stato d’emergenza in risposta all’intensificarsi delle manifestazioni di protesta del Fronte di liberazione Oromo. Tra il 3 e il 4 marzo cinque persone sono morte in scontri tra forze di sicurezza e dimostranti. Il 10 marzo nei pressi della città di Moyale, attraversata dalla frontiera con il Kenya, durante una operazione militare nove civili sono stati uccisi e altri 12 sono stati feriti. In preda al terrore, oltre 8.000 civili hanno attraversato il confine con il Kenya chiedendo asilo e altri stanno seguendo il loro esempio. La Società della Croce Rossa del Kenya, KRDS, sostiene che per lo più si tratta di donne e bambini. Secondo le testimonianze dei profughi riportate dalla Bbc e dal quotidiano kenyano The Nation, i soldati hanno sparato a chiunque si trovasse a tiro. Un uomo anziano è morto colpito alla schiena. Neanche i luoghi di culto sono stati rispettati, i soldati hanno dato la caccia ai militanti del Fronte di liberazione Oromo persino nelle moschee. L’emergenza ha colto le autorità kenyane impreparate. Talaso Chucha, coordinatrice della KRDS, sostiene che manca un’area per registrare il numero e l’identità dei profughi. Le autorità locali hanno organizzato cinque punti di raccolta, ma la maggior parte dei profughi sono sparpagliati in città in attesa di aiuto. C’è bisogno di un campo di raccolta dove far confluire le risorse e poterli soccorrere. Al momento 15 paramedici sono stati addetti ad assisterli. Mancano cibo, acqua potabile, letti e servizi igienici. Fino a 50 persone e più ancora sono costrette a vivere in una sola abitazione. La KRDS avverte che, se non si pone rimedio alla situazione, c’è rischio di epidemie, soprattutto di colera, sia per i profughi sia per gli abitanti della regione.