Congo: una missione di pace che fomenta la guerra
La missione di peacekeeping dell’ONU opera in Congo dal 1999, ma il Paese ancora non conosce la pace. Al contrario, i caschi blu vengono accusati di inefficienza e il loro operato suscita proteste e disordini. Ma agli africani dovrebbe esser chiaro che i primi responsabili dei conflitti sono i loro stessi governi.
L’est della Repubblica democratica del Congo è una delle regioni del mondo più instabili e insicure. Le province di Ituri, Nord Kivu e Sud Kivu, confinanti con il Rwanda e l’Uganda, sono state teatro di due guerre, tra il 1996 e il 1997 e tra il 1998 e il 2003: la prima ha portato alla fuga del presidente Sese Seko Mobutu dopo 32 anni di dittatura; la seconda, complessa per numero di Paesi ed etnie coinvolti, si è conclusa con l’insediamento definitivo della “dinastia” Kabila – il padre Laurent-Désiré fino al 2001, seguito dal figlio Joseph – alla guida del Paese.
Dal 1999 opera nella regione una missione di peacekeeping delle Nazioni Unite. Nel 2010, anno in cui è stata rafforzata, il suo nome da MONUC è stato cambiato in MONUSCO. Con 17.783 addetti – 2.970 civili e 14.813 tra militari e agenti di polizia – è la più grande missione Onu, insieme alla UNMISS impegnata nel Sudan del Sud. Nel 2010 la MONUSCO è stata autorizzata a impiegare tutti i mezzi necessari per svolgere il suo mandato che consiste nel sostenere il governo del Paese nei suoi sforzi di stabilizzazione e pacificazione e nel proteggere i civili, il personale che svolge compiti umanitari e i difensori dei diritti umani da minacce di violenza fisica.
Eppure gli abitanti dell’est del Congo non conoscono ancora la vera pace. Da quasi 30 anni nelle loro terre sono attivi decine di gruppi armati, in conflitto tra loro e con le forze governative. La minaccia per la popolazione sono gli scontri a fuoco, quando si svolgono in prossimità di villaggi e centri urbani, gli attacchi a scopo di razzia dei miliziani in cerca di bottino e le loro operazioni punitive e intimidatorie. Le due guerre hanno provocato circa cinque milioni di morti. Da allora non esiste un calcolo del quotidiano stillicidio di vittime.
Più volte nel corso degli anni ci sono state proteste per l’operato della MONUSCO, di solito generate dal fatto che effettivamente le truppe Onu non sempre intervengono a difendere villaggi e comunità in pericolo, anche quando si trovano a poca distanza da una loro sede. Si è sempre trattato di episodi localizzati e presto repressi. Invece dal 25 luglio per tre giorni contro i caschi blu sono scoppiate violente dimostrazioni popolari dapprima a Goma, il capoluogo del Nord Kivu, contro la sede principale della MONUSCO, poi contro le basi di Butembo, sempre nel Nord Kivu, e di Uvira, nel Sud Kivu. Sembra inoltre che i disordini si siano estesi anche ad altre sedi della missione. Gli edifici MONUSCO sono stati assaltati con pietre e bombe molotov, danneggiati, dati alle fiamme, saccheggiati da centinaia di persone che lanciavano slogan contro i peacekeeper e ne chiedevano il ritiro dal paese. Mentre una parte del personale della missione veniva evacuato per garantirne la sicurezza, le forze dell’ordine congolesi sono intervenute a sostegno dei militari Onu per fermare i dimostranti.
Durante gli scontri almeno 19 persone sono state uccise, tra cui tre membri della missione. Dopo il primo giorno i feriti erano già una cinquantina e ne sono stati registrati numerosi altri nei giorni successivi. A infiammare gli animi, è circolata la notizia, non confermata, che i peacekeeper avessero ucciso dei dimostranti. Da parte sua, la polizia locale sostiene che dei combattenti di gruppi armati si sono mescolati alla folla per incitare all’odio contro la MONUSCO.
«La situazione è estremamente esplosiva», ha dichiarato il 28 luglio Farhan Haq, viceportavoce del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, «e sono stati mobilitati dei rinforzi. Le nostre forze di pronto intervento sono in stato di massima allerta e hanno ricevuto ordine di esercitare estrema cautela nel rispondere agli attacchi, di usare gas lacrimogeni per disperdere i dimostranti e sparare colpi di avvertimento solo nel caso che il personale o le proprietà Onu vengano attaccati».
Forse per il momento si è esaurita la collera della popolazione, lasciata in balia di gruppi armati spietati e senza scrupoli e va messo in conto che, se non dei miliziani, certo ai dimostranti si saranno uniti gruppi di giovani solo intenzionati a far danni e rubare qualcosa: succede sempre in Africa. Ma questa esplosione di violenza si inserisce in un clima di ostilità e rigetto nei confronti delle missioni di peacekeeping Onu e anche delle operazioni militari multinazionali impegnate negli stati africani minacciati da gruppi jihadisti. Di recente manifestazioni per chiedere la partenza delle truppe straniere, Onu, europee e francesi, sono state organizzate in Mali e in Ciad. In Congo è la stessa ala giovanile del partito del presidente Felix Tshisekedi a incitare la popolazione a chiedere la partenza immediata dei caschi blu.
Dappertutto rabbia e rivolta derivano dall’accusa alle truppe straniere dispiegate di non essere efficienti, di non risolvere i problemi. La risposta delle Nazioni Unite secondo cui attaccare una missione di peacekeeping può essere considerato un crimine di guerra, e quindi gli aggressori possono esserne accusati, prova solo e ancora una volta l’arroganza di un organismo che sempre meno svolge il suo mandato e tuttavia non accetta critiche. Tutti sanno che i caschi blu non soltanto si dimostrano spesso a dir poco riluttanti a esporsi in difesa delle popolazioni che hanno il compito di proteggere, ma non di rado sono essi stessi il problema, per come trattano i civili, specialmente le donne e le persone più inermi. Anni fa Amnesty International, denunciando numerosi atti di violenza compiuti proprio in Congo sui civili, aveva suggerito che i caschi blu prima di essere mandati sul campo seguissero un breve corso sui diritti umani.
Per contro dovrebbe essere chiaro, soprattutto agli occhi degli africani vittime di guerra, che i loro governi sono i primi responsabili dei conflitti e della violenza che devastano la loro vita: perché ne sono all’origine e perché lasciano ad estranei il compito di contenerli. In una cosa eccellono i leader africani: nell’attribuire sempre e solo a cause esterne l’origine di qualsiasi problema affligga i loro Paesi.