Congo nel caos, i vescovi denunciano governo e Ruanda
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Alla mercé di oltre 100 gruppi armati, diverse province congolesi vivono ormai un’insicurezza «endemica». E il governo ha le sue colpe. La denuncia coraggiosa di sei diocesi del Congo. E il cardinale Besungu sottolinea anche il ruolo del Ruanda, che sfrutta il caos a danno dei congolesi.
«Lo Stato del Congo è morto e noi governati siamo abbandonati al nostro triste destino e non vediamo alcun segno che i leader di oggi pensino al benessere dei governati nel prossimo futuro». A formulare questa gravissima accusa sono stati i vescovi di sei diocesi dell’est della Repubblica democratica del Congo, al termine della loro assemblea svoltasi dall’8 al 14 aprile a Butembo, nel Nord Kivu. Questa provincia e altre tre – Sud Kivu, Maniema e Ituri – ormai da tre decenni sono alla mercé di oltre 100 gruppi armati che si contendono territori e risorse e infieriscono pressoché incontrastati sulla popolazione. «L’insicurezza è diventata endemica con il suo corteo di omicidi anche in pieno giorno», si legge nel comunicato diffuso il 17 aprile, e questo comporta «la paralisi dell’economia attraverso una strategia di isolamento e soffocamento dei centri grandi e piccoli», mano a mano che l’esercito governativo abbandona le sue postazioni, esercito che peraltro, invece di difendere i civili, è a sua volta responsabile di omicidi, rapine, abusi.
Le elezioni generali del 20 dicembre 2023 hanno confermato alla guida del Paese il capo di Stato uscente, Félix Tshisekedi, e a lui si rivolgono i presuli. Gli chiedono «di istituire rapidamente un governo composto da persone competenti e oneste. Spetta a chi detiene il potere smettere di gestire il Paese come un patrimonio privato e non considerare più la resilienza del nostro popolo come una debolezza, ma come il rifiuto di subire una morte ingiusta e pianificata». Critiche così esplicite a un leader africano possono costare molto care. I vescovi congolesi lo sanno, hanno più volte sperimentato la collera del governo congolese quando lo hanno sfidato con parole e azioni richiamandolo ai suoi doveri. Tuttavia continuano a chiedere giustizia per i loro connazionali.
Ancora più tagliente e ferma è la posizione assunta nelle scorse settimane dall’arcivescovo metropolita di Kinshasa, il cardinale Fridolin Ambongo Besungu, e che l’agenzia di stampa Fides sta esponendo. La situazione più drammatica – racconta il cardinale – in questo momento è quella del Nord Kivu minacciato da uno dei gruppi armati più potenti, l’M23, composto quasi interamente da congolesi di etnia Tutsi, che da mesi guadagna terreno e ormai è assestato a poche decine di chilometri dal capoluogo Goma, da cui decine di migliaia di persone sono già fuggite aggiungendosi ai milioni di sfollati della regione. Benché lo neghi, il Ruanda, dove i Tutsi sono al potere dal 1994, sostiene militarmente e finanziariamente l’M23. Si ritiene che dei militari ruandesi più volte siano addirittura entrati in Congo per combattere al loro fianco. Il cardinale Besungu ne è convinto e condivide la ben fondata accusa al Ruanda di partecipare al contrabbando delle immense risorse minerarie dell’est del Paese, contrabbando che, insieme alle incursioni a scopo di razzia e al bracconaggio, mantiene e arricchisce i combattenti, soprattutto i loro leader, e chiunque sia disposto a prendervi parte.
Il Ruanda fa i propri interessi senza curarsi delle conseguenze ed è cosa deprecabile, ma lo è ben di più il comportamento del governo congolese. Invece di potenziare l’esercito regolare con soldati selezionati e ben addestrati il governo ha distribuito ulteriori armi a diversi gruppi armati, come i Wazalendo e anche ad alcuni componenti delle FDLR (Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda) nell’aspettativa che questi gruppi appoggiassero l’esercito contro l’avanzata dell’M23. Tutti questi gruppi sono ora ben armati «ed è la popolazione che però ne paga le conseguenze, generando il rischio di un’insicurezza generalizzata», ha spiegato il cardinale.
Le FDLR sono un gruppo fondato agli inizi degli anni 2000 dai superstiti del vecchio regime Hutu ruandese, fuggiti in Congo quando nell’agosto del 1994 l’esercito Tutsi guidato da Paul Kagame ha preso il controllo del Paese mettendo fine al genocidio scatenato dagli Hutu. I Wazalendo sono un insieme di gruppi che hanno preso le armi per difendere la popolazione contro l’M23. Di recente però alcuni combattenti Wazalendo sono passati nelle file dell’M23. Inoltre, spiega il cardinale Besungu, quella di armare dei combattenti è stata una scelta irresponsabile: «Alla fine diventano un pericolo per la popolazione, taglieggiano i civili, commettono furti e omicidi, entrano nel traffico illegale dei minerali estratti dalle miniere artigianali».
M23, FDLR, Wazalendo seminano terrore e morte, impoveriscono le province orientali, ne minano irrimediabilmente, alla radice, anche la struttura sociale ed economica perché al loro arrivo in un’area cacciano sia i funzionari statali sia i capi tradizionali, locali. L’M23, in particolare, da due anni ha incominciato a istituire un’amministrazione parallela nei territori sotto il suo controllo affidando le cariche secondo appartenenze etniche e in base ai legami con il gruppo o con altri ad esso affiliati. «Abbiamo fatto la scelta di accompagnare la popolazione in questo momento così difficile – conclude il cardinale Besungu in una delle sue interviste –. Il senso della nostra sollecitudine pastorale con un popolo che soffre è domandarsi come possiamo fare a mostrare un po’ dell’amore e della Misericordia di Dio a queste persone in sofferenza. È questo che sta cercando di fare la Chiesa, ma non è sempre facile».
Non è sempre facile e a volte diventa estremamente difficile. Le sue parole rievocano lo scontro tra Chiesa cattolica e governo, nel 2017, quando la Conferenza episcopale nazionale del Congo reclamava l’attuazione del governo di unità nazionale promesso da oltre un anno. Il 31 dicembre 2017 tutte le chiese di Kinshasa, la capitale, diedero ordine che i fedeli, terminate le funzioni delle rispettive parrocchie, confluissero in un punto per sfilare uniti in processione nel centro cittadino. La reazione del governo fu violenta: almeno otto persone persero la vita. Per impedire che si formassero i cortei, il governo aveva ordinato che polizia ed esercito si schierassero all’esterno delle chiese e creassero posti di blocco. La processione si fece lo stesso, con alla testa dei chierichetti che portavano un grande crocifisso. Le forze di sicurezza non esitarono a caricarli con un mezzo militare.
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