Congo, la guerra civile dilaga. Ma è "colpa dell'Occidente"
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Nelle province orientali del Congo, la milizia M23 appoggiata dal Rwanda (che però nega) marcia su Goma. Ma infuria la protesta solo contro l'Occidente incolpato per la guerra.
Le province orientali della Repubblica democratica del Congo, Nord Kivu, Sud Kivu e Ituri, sono una delle regioni più instabili e insicure di tutto il continente africano. Sono state il principale teatro nel 1996-1997 e nel 1998-2003 di due guerre che hanno coinvolto diversi altri paesi africani e hanno provocato almeno 5,4 milioni di morti. Ma nonostante la pace infine raggiunta le violenze nell’est del paese non sono terminate. Da circa 30 anni decine di gruppi armati, alcuni dei quali formatisi oltre confine in Uganda, Rwanda, Burundi e Repubblica Centrafricana negli anni 90 del secolo scorso, si contendono territori e risorse minerarie, feroci oltre ogni immaginazione con i civili, spietati al punto da non risparmiare neanche le agenzie Onu e le organizzazioni non governative, che assistono la popolazione sostituendosi alle istituzioni governative quasi del tutto assenti, e in grado di sfidare l’esercito nazionale e i caschi blu della Monusco, la missione Onu di peacekeeping forte di oltre 17mila unità, che dal 1999, e fino al 2010 con il nome di Monuc, esegue con risultati peraltro del tutto insoddisfacenti il mandato di proteggere i civili e il personale umanitario.
Uno dei gruppi più agguerriti e temuti è l’M23, attivo dal 2012 nel Nord Kivu, forte del sostegno militare e finanziario che il Rwanda gli fornisce perché i suoi combattenti sono Banyamulenge, Tutsi congolesi, l’etnia vittima in Rwanda del genocidio del 1994. Quell’anno circa due milioni di Hutu rwandesi fuggirono in Congo temendo la vendetta dei Tutsi superstiti e ormai al potere. Per loro le Nazioni Unite crearono un immenso complesso di campi profughi vicino a Goma, la capitale della provincia del Nord Kivu. Però insieme ai civili Hutu terrorizzati si insediarono nei campi Onu decine di migliaia di militari Hutu e di miliziani Interahamwe, i principali responsabili del genocidio, e ne approfittarono per iniziare a compiere incursioni notturne in Rwanda e nei territori congolesi abitati da Tutsi e per riorganizzarsi formando un gruppo tuttora attivo, le Fdlr, Forze democratiche per la liberazione del Rwanda.
Gli scontri tra M23 e Fdlr sono uno dei fattori di instabilità della regione, ma non l’unico. Nell’Ituri una minaccia crescente è rappresentata da un gruppo di origine ugandese, gli Adf, Allied Democratic Forces, reso più forte dall’affiliazione all’Isis, lo Stato Islamico, nel 2016. Poi, tra le formazioni più forti e attive, ci sono i Codeco, un insieme di gruppi di etnia Lendu tanto feroci da attaccare persino i campi profughi affollati da donne e bambini inermi; e i Mai Mai, espressione di altri gruppi etnici nel Nord e Sud Kivu, resi famosi per il fatto che molti di loro credono di diventare invulnerabili alle pallottole cospargendosi di una certa acqua.
Ma la preoccupazione maggiore attualmente è costituita dall’M23 che più volte è riuscita a estendere il controllo sul Nord Kivu fino a minacciare la capitale Goma. C’è riuscito nel 2012 quando ha invaso e occupato la città per 10 giorni. Da alcune settimane ci sta riprovando e ormai è arrivato pericolosamente vicino. Decine di migliaia di persone, memori delle atrocità subite nel 2012, hanno già lasciato la città cercando rifugio nei campi profughi che ospitano gran parte dei quasi sette milioni di sfollati della regione orientale. Il Rwanda nega di aiutare l’M23, ma si sospetta che dei militari rwandesi più volte siano addirittura entrati in Congo per combattere al loro fianco. L’aiuto al gruppo armato in difesa dei Tutsi congolesi in realtà consente al Rwanda di partecipare al contrabbando delle immense risorse minerarie dell’est del paese, contrabbando che, insieme alle incursioni a scopo di razzia e al bracconaggio, mantiene e arricchisce i combattenti, soprattutto i loro leader, e chiunque sia disposto a prendervi parte: anche, senza dubbio, non pochi dei militari governativi distaccati nelle tre province, degli amministratori locali e delle truppe straniere inviate a rafforzare quelle congolesi.
Non solo la Monusco si è infatti dimostrata inetta e disinteressata a difendere i civili, tanto che il governo sta pensando di porre termine alla missione, anche le forze fornite nel 2022 da alcuni stati dell’Africa orientale tra cui il Kenya si sono rivelate del tutto inutili e, in seguito alle rimostranze della popolazione, lo scorso dicembre sono state rimandate in patria. Si vedrà se daranno miglior prova i 2.900 militari che il Sudafrica ha promesso in aggiunta a quelli già presenti in Congo, provenienti da diversi paesi della Sadc, la Comunità per lo sviluppo dell’Africa australe.
Per niente preoccupato del coinvolgimento di altri paesi africani al fianco del Congo, il presidente del Rwanda, Paul Kagame, di recente ha dichiarato: «combatteremo come persone che non hanno niente da perdere». Il presidente del Congo Felix Tshisekedi, neo rieletto a dicembre grazie a un voto che troppi brogli e violenze avrebbero invece dovuto invalidare, per tutta risposta ha minacciato di dichiarare guerra al Rwanda se i “suoi” ribelli, l’M23, avessero attaccato ancora. E loro lo hanno fatto in questo modo clamoroso, marciando su Goma.
Intanto dall’11 febbraio nella capitale Kinshasa gruppi di manifestanti protestano, vogliono la fine delle violenze nell’est. Si sono radunati davanti a molte ambasciate di paesi occidentali, hanno bruciato bandiere degli Stati Uniti e del Belgio, ex potenza coloniale, gridano che la colpa è dell’Occidente. “Gli Occidentali sono dietro al saccheggio del nostro paese”, “sono complici del Rwanda”, “il Rwanda non lavora da solo”, “i governi occidentali non usano la loro influenza sul Rwanda perché fermi l’M23” spiegano ai giornalisti che stanno seguendo le proteste.