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EDITORIALE

Come ti trasformo un obiettore in abortista

La Cassazione condanna un ginecologo per non aver prestato le cure a una donna dopo l'aborto. Ma la motivazione della sentenza mette a rischio la possibilità di migliaia di medici a praticare l'obiezione di coscienza.

Editoriali 05_04_2013
Aborto

Nel maggio 2007 un medico obiettore di coscienza in servizio di guardia presso il reparto ginecologico di un ospedale del Nord fu chiamato dall’ostetrica ad assistere una donna sottoposta ad aborto volontario del secondo trimestre. Al rifiuto da parte dello specialista di visitare la donna e di eseguire l’ordine di servizio impartitole telefonicamente dal primario e dal direttore sanitario, è seguita un’azione giudiziaria conclusasi con la sentenza della Corte di Cassazione che ha confermato la condanna del medico per rifiuto di atti d’ufficio.

“Dopo l’aborto non esistono obiettori”, “Medico obiettore non può rifiutare cure dopo l’aborto”, "Il medico obiettore non può negare le cure a chi abortisce". Sono alcuni dei titoli coi quali i media hanno commentato la sentenza. Poiché l’intervento del medico obiettore era stato richiesto nella fase di secondamento, cioè nella fase di espulsione della placenta e degli annessi, quando il feto era già stato espulso, i giudici hanno deciso che il medico non potesse invocare la propria obiezione di coscienza. La legge 194 consente all’obiettore il diritto di non partecipare alle attività “specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, ma non lo esime dal prestare la propria attività nelle fasi successive all’interruzione di gravidanza. Più in dettaglio i giudici hanno interpretato la norma stabilendo che il medico obiettore non può esimersi dal partecipare alle attività che precedono o seguono i “fatti causativi dell’aborto”, individuati, quando l’aborto è attuato coi farmaci, nelle “sole pratiche di predisposizione e somministrazione dei farmaci abortivi”.

E proprio qui sta il problema. Non ci interessa una difesa a prescindere dal suo operato del medico condannato, piuttosto sono rilevanti le implicazioni di una tale decisione per la condotta di decine di migliaia di professionisti che hanno fatto dichiarazione di obiezione di coscienza all’aborto. La sentenza sembra proprio non volere considerare il nocciolo dell’obiezione all’aborto che non si fonda sulla volontà di non interrompere la gravidanza (cosa che i medici obiettori fanno routinariamente quando, per salvare la vita e l’integrità della madre e del concepito, anticipano il parto), ma sul fermo proposito di non uccidere un essere umano innocente.

Non entra in testa, è fuori dalle categorie mentali degli abortisti, non riescono a capacitarsi che vi siano professionisti che non vogliono dare la morte perché hanno scelto di operare per difendere la vita umana. Persino un bambino capisce che la condanna morale non è contro l’interruzione di gravidanza in sé, ma contro l’aborto, contro la soppressione della vita. Eppure la sordità rischia di travolgere persino un’evidenza così elementare. È un uso appena decente della ragione ad indicare che nell’aborto farmacologico la morte dell’innocente giunge come ultimo anello di una catena di eventi causali.

Non è niente di strano, chi abbia mai visto una scheda ISTAT per le cause di morte conosce i concetti di causa iniziale, causa intermedia e causa finale della morte. Nell’aborto farmacologico avviene proprio questo: causa iniziale è la somministrazione di farmaci, causa intermedia sono le modificazioni anatomo-funzionali sul corpo della donna indotte dai farmaci, causa finale più frequente è il venire meno del supporto in ossigeno assicurato dal collegamento circolatorio tra madre e figlio. Includere come attività da cui il personale obiettore di coscienza può astenersi solamente la somministrazione dei farmaci abortivi, cioè la causa iniziale, significa obbligare gli stessi obiettori ad attuare la causa finale allorquando essa non si verifichi spontaneamente.

Negli aborti del secondo trimestre è vero che solitamente il bambino viene espulso già morto, ma non è eccezionale che invece il bambino nasca ancora vivo e muoia a causa della immaturità del proprio sistema respiratorio. Una volta interrotto il collegamento circolatorio con la madre assicurato dalla placenta e dal cordone ombelicale, il bambino tenterà di respirare, ma non ce la farà. In questi casi la legatura e il taglio del cordone, o l’induzione del distacco della placenta mediante secondamento manuale saranno state le cause ultime della sua morte.

La cosa, seppure con le sue specificità, si ripresenta nel caso di aborti precoci eseguiti con la RU486 e  le prostaglandine dove è tutt’altro che insolito per il medico non potere dire con certezza se il bambino ad un dato momento sia già morto o se sia ancora vivo. Seguendo quanto stabilito dai giudici il medico obiettore sarebbe obbligato comunque ad eseguire il raschiamento con la possibilità non remota di essere egli stesso colui che uccide il concepito. Basta che sia in gioco la salute della donna che, è bene ricordarlo, secondo la ben nota definizione fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1948 (quando l’aborto legale aveva accomunato soltanto l’Unione Sovietica di Stalin, la Germania nazista e quella democrazia svedese che oggi consente l’aborto sulla base del sesso del nascituro) non è la mera assenza di malattia, ma uno stato di benessere fisico, psichico e sociale, cioè qualcosa che è difficilmente distinguibile dalla felicità.

Ecco, l’intolleranza relativista tutela il desiderio di felicità obbligando il medico obiettore di coscienza ad eseguire l’ordine di aborto; se non vuole finire in galera il sanitario deve essere pronto a dare il colpo di grazia al bambino. Dopo duemila anni siamo tornati al punto di partenza, da chi detiene il potere giunge un ordine che non si può disattendere: un colpo di lancia nel costato, per essere certi della morte dell’innocente.