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ORA DI DOTTRINA / 50 - IL SUPPLEMENTO

Come riconoscere lo sviluppo della dottrina dall'eresia

Transustanziazione e comunione sulla lingua: i criteri fissati da John Henry Newman - così spesso citato in modo erroneo - ci permettono di comprendere cosa sia veramente un corretto sviluppo della dottrina. Mentre il richiamo alla "Chiesa primitiva" è spesso il vero "indietrismo". 

Catechismo 18_12_2022

Ad ogni comparsa di una novità stravagante all’interno del mondo cattolico, ritorna anche, puntualmente, l’appello al principio dello sviluppo del dogma e ai due classici dell’argomento, ossia il Commonitorium di San Vincenzo di Lérins ed il Saggio sullo sviluppo della Dottrina cristiana di J. H. Newman (qui una presentazione del Saggio). Si tratta probabilmente di un modo per rassicurare preventivamente il fedele della bontà di quanto leggeranno i suoi occhi o ascolteranno le sue orecchie, un messaggio tranquillizzante per creare in lui un atteggiamento di accoglienza. O forse, quanti si rifanno a questi classici per supportare vecchi errori e promuovere nuovi paradigmi non li hanno capiti o non li hanno letti.

Occupiamoci solamente dell’Essay di Newman. I sette principi da lui identificati mostrano chiaramente che le deviazioni che troviamo lungo la storia della Chiesa guardano sia avanti che indietro; esse si presentano come una restaurazione della semplicità di una tradizione, di una dottrina, di un rito, andata perduta nel corso dei secoli, oppure come una revisione che si renderebbe necessaria per meglio adeguare l’insegnamento della Chiesa al presente. Un’eresia ben riuscita riesce ad operare in entrambe le direzioni.

Non sempre è facile capire, nell’immediato, se ci troviamo di fronte ad un vero sviluppo oppure ad un sovvertimento; di certo né l’immobilità né il cambiamento risultano per se stessi garanzia di verità. Tutto ciò che è vivo si sviluppa e cresce, mentre il cadavere si decompone. In entrambi i casi siamo di fronte ad un cambiamento, ma la differenza è piuttosto evidente.

Andiamo un po’ più nel concreto, con qualche esempio. Negli ultimi anni abbiamo assistito a nuovi tentativi di declassare la dottrina della transustanziazione ad una dottrina teologica non vincolante, addirittura una pietra d’inciampo nel dialogo ecumenico. Da qui l’idea caritatevole che, per appianare queste difficoltà, si possa e si debba non tanto respingere la transustanziazione, ma non esigere l’adesione ad essa, così come non lo sarebbe stato per secoli. L’unità originaria può essere di nuovo guadagnata mettendo tra parentesi, se non proprio bianchettando, quelle precisazioni teologiche posteriori, mantenendo invece ferma l’adesione ad una presenza di Gesù nell’Eucaristia, non espressa da quella terminologia teologica specifica.

Si tratta di un argomento seducente, che esibisce una fedeltà “alle origini” insieme ad una lodevole preoccupazione pastorale. Dov’è dunque il problema?

Nell’ottica dello sviluppo delineata da Newman, la transustanziazione risulta a tutti gli effetti uno sviluppo autentico dell’insegnamento della Chiesa antica sull’Eucaristia. E non solo perché ce lo garantisce l’autorità della Chiesa, ma anche per alcuni elementi interni. La transustanziazione è infatti una precisazione del modo della presenza eucaristica che è stato resa possibile grazie alla capacità di acquisire idonei concetti filosofici “esterni” (principio di assimilazione), che hanno permesso di sviluppare il dogma, non solo senza tradirlo dal punto di vista logico (principio della sequenza logica), ma anche conservandolo proprio grazie alla nuova formulazione (continuità dei principi, azione conservativa sul passato).

L’insegnamento della Chiesa antica sull’Eucaristia è rimasto vivo grazie a questo sviluppo “moderno” ed è, per così dire, incorporato in esso. Non è più possibile, se non dal punto di vista dell’indagine della storia del dogma, scorporare il primo dal secondo. Una posizione “pastorale” come quella descritta sopra si rivela dunque, in ultima analisi, una negazione dell’insegnamento della Chiesa antica, mentre protesta di volerlo difendere da sovrastrutture successive. Sant’Ambrogio, per citare un Padre della Chiesa particolarmente significativo, risulta più aderente alla posizione della Chiesa che sostiene la transustanziazione, che non a quella di certi riformatori che la relativizzano o persino la rifiutano, sebbene il termine non si trovi nelle sue opere. Un testo come quello del De Mysteriis è molto eloquente: «La parola di Cristo che poté creare dal nulla ciò che non esisteva, non può trasformare in qualcosa di diverso ciò che esiste? Non è infatti cosa minore dare alle cose una natura del tutto nuova che mutare quella che hanno […]. Questo corpo che produciamo sull’altare è il corpo nato dalla Vergine. […] È certamente la vera carne di Cristo che è stata crocifissa, che è stata sepolta; è dunque veramente il sacramento della sua carne». Qui troviamo la verità della mutazione di una natura in un’altra, quella della vera carne di Cristo, che verrà poi incorporata dalla dottrina della transustanziazione. Ed in questa dinamica di sviluppo-incorporazione essa rimane viva.

Il senso dello sviluppo del dogma permette di non cadere nella seduzione di una fedeltà di tipo archeologico, oggi portata avanti da quanti corrono dietro al miraggio della “Chiesa primitiva”, per smantellare sistematicamente tutte le acquisizioni del periodo medievale e contro-riformistico. Nella dottrina e nel rito. Perché anche il rito (latino) ha subito degli assalti di tipo archeologistico, come già denunciava Pio XII nella Mediator Dei, provocando profonde lacerazioni all’interno della Chiesa, che sembrano aumentare anziché sfiorire.

Un esempio piuttosto evidente – ma non è certo l’unico  - è la pratica della distribuzione della Santa Comunione sulla mano del fedele. Le testimonianze della pratica antica, prima del pontificato di San Gregorio Magno, indicano che la modalità della recezione dell’Eucaristia sul palmo della mano risulta più in linea con la pratica della Comunione sulla lingua che non con quella sulla mano, così come è praticata oggi. Come ha mostrato il canonico Grégoire de Guillebon (in Bref examen critique de la Communion dans la main), le continue raccomandazioni che troviamo nei testi dei Padri circa la riverenza, i gesti di adorazione, le precauzioni affinché non si disperdano i frammenti – tra cui l’uso di un piccolo telo per ricoprire il palmo della mano del fedele, come anche l’enfasi posta sulla santificazione della bocca (e non della mano) mediante il contatto con le Sacre Specie, con il richiamo frequente del capitolo sesto del profeta Isaia, indicano che la transizione verso l’uso della Comunione sulla lingua è stato uno sviluppo fedele e necessario.

Il fatto che già dal VI secolo la Comunione sulla lingua sia divenuta la modalità esclusiva indica la capacità di questa prassi di assimilare le raccomandazioni latreutiche che troviamo nei Padri, risolvendo nel contempo le criticità che la Comunione sul palmo presentava. Il recente reinserimento della Comunione sulla mano, tra l’altro senza quelle precauzioni che troviamo  tanto raccomandate nei testi dei primi quattro secoli, percorre invece la direzione opposta allo sviluppo.

Il punto nodale da recepire è che una corretta concezione dello sviluppo permette alla Chiesa, nel suo cammino lungo la storia, di passare da una formulazione o un rito  imprecisi e imperfetti ad altri capaci di esprimere meglio il mistero inesauribile che veicolano. Percorrere la strada al contrario sarebbe come pretendere di bloccare o invertire la crescita di un organismo vivente.