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ISLAM IN ITALIA

Come le prigioni diventano luoghi di radicalizzazione

Imam radicali che istigano alla lotta armata, terroristi conclamati che hanno compiuto attacchi in Europa: gran parte di loro si sono radicalizzati in carcere. Invece che essere reinseriti sulla buona strada, hanno incontrato fanatici che li hanno instradati verso il terrorismo. Succede questo nelle carceri italiane, da anni. E all'Ucoii è stata affidata l'opera di de-radicalizzazione.

Libertà religiosa 23_07_2021
Musulmani in preghiera a Roma

«Li ucciderò tagliandogli la gola, cavandogli gli occhi, organizzando una guerra», così, Raduan Lafsahi, il marocchino di 35 anni, mentre esaltava gli attentati di Charlie Hebdo e delle Torri Gemelle, aizzava i suoi colleghi carcerati contro gli italiani. «Sono dei maiali». Quello di Lafsahi è l’ultimo episodio di proselitismo e tentativo di radicalizzazione nelle carceri italiane. Solo pochi giorni fa, gli stessi in cui si sfilava contro gli uomini e le donne in divisa dopo i fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Le carceri sono ormai luoghi che confermano la natura antipodica di correzione e corruzione, ma sempre più spesso, ultimamente, la seconda prende il sopravvento sulla prima perché trascurate. E succede che Lafsahi possa iniziare indisturbato la propria attività di proselitismo per il terrorismo islamico nel 2015, da detenuto a Como. Da allora, come in un tour organizzato per le carceri italiane, entrando e uscendo per spaccio, rapine e aggressioni ad agenti e detenuti, s’è dedicato alla radicalizzazione dietro le sbarre a Pavia, Torino, Potenza, Agrigento, Palermo, Catania, Messina e Catanzaro. Indisturbato fino ad oggi.

Poche settimane prima, i carabinieri del Ros hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, nei confronti di un altro detenuto di nazionalità marocchina ritenuto responsabile di propaganda, istigazione a delinquere per terrorismo e per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa, sfruttando il ruolo di imam all’interno del carcere di Alessandria-San Michele. El Allam Bouchta, 42 anni, soprannominato Bush, faceva propaganda per Al Qaeda, cercando di convincere i detenuti musulmani a sposare la causa del martirio in nome del jihad contro le autorità italiane. Lo stesso che ha chiesto la testa di Souad Sbai durante i sermoni in carcere.

Nel frattempo a fine giugno, Cesare Battisti, il terrorista dei Proletari armati per il comunismo (Pac), condannato all’ergastolo per quattro omicidi, otteneva di essere spostato dal carcere penitenziario di Rossano (Calabria), a Ferrara per via dei suoi coinquilini. «Il Dap pare ignorare che nel reparto dove sono detenuto nulla è predisposto per i detenuti che non condividono i costumi e la tradizione musulmana. L'As2 di Rossano è una tomba, lo sanno tutti. Qui tutto è predisposto per tenere a bada dei ferventi musulmani, ai quali, se pure in condizioni esecrabili, è stato concesso il diritto di pregare insieme».

Secondo i dati del ministero della Giustizia sono circa ottomila, a gennaio 2020, i detenuti di fede islamica in Italia. Al 30 giugno 2021, sul totale della popolazione carceraria italiana, 53.637 detenuti, un terzo, 17.344, sono stranieri. Di questi 2.623 sono comunitari, tutti gli altri vengono da Albania, Tunisia, Marocco, Algeria, Nigeria, ex Jugoslavia: tutti i paesi notoriamente afflitti da fenomeni terroristici interni o da cui i gruppi jihadisti traggono militanti da schierare in Europa, Italia compresa. Era il 2016, per esempio, quando nel carcere di Velletri, l’imam fai-da-te tunisino, Firas Barhoumi, ha  radicalizzato il macedone Vulnet Maqelara, con esperienza di guerriglia in Kosovo e di criminalità comune, pronto a unirsi al jihad in Iraq, dove il suo mentore si era recato dopo la scarcerazione.

Dopo i casi eclatanti di Domenico Quaranta, passato nelle file del jihad nel penitenziario di Trapani e Anis Amri, l’attentatore di Berlino 2016 (12 morti e 56 feriti), introdotto all’islam radicale durante una permanenza nelle carceri siciliane, i servizi segreti nelle relazioni annuali non hanno smesso di confermare: le prigioni italiane sono oramai considerabili, a tutti gli effetti, dei luoghi di radicalizzazione. Cos’è cambiato da allora?

La strategia nostrana consiste nell’aver affidato, sulla base di un’intesa risalente al 2015, all’Unione delle Comunità Islamiche in Italia (UCOII) la de-radicalizzazione e lo smistamento di imam. E lo scorso anno, l’ex ministro Bonafede, ha istituito anche il primo corso per formare imam destinati a lavorare all'interno degli istituti penitenziari, dove i detenuti islamici, secondo il ministero, sono sempre più numerosi. L’attività degli  imam e dei mediatori culturali dell’UCOII si svolge in lingua araba: che provvedimenti sono stati presi per rispondere alle critiche mosse dal SAPPE (sindacato autonomo polizia penitenziaria), che da anni lamenta l’impossibilità per gli operatori di  comprendere che cosa effettivamente si dicano durante i momenti di preghiera collettiva? Come avviene fuori dal carcere, anche dietro le sbarre succede che a guidare la preghiera non sia chi conosce meglio il Corano, ma chi ha più carisma. E quindi nessuno è al riparo dai rischi di radicalizzazione. Anche Bouchta El Allam si è avvicinato al Corano in carcere, e qui è diventato imam proponendosi come guida nella preghiera del venerdì.

Ogni anno il Ministero della Giustizia dirama una circolare indirizzata agli istituti di pena in risposta alla popolazione carceraria e alle istanze da essa avanzata. Oggetto: la raccomandazione di prestare attenzione ai detenuti di islamici. Il DAP allora si preoccupa del menù per i musulmani, degli spazi di preghiera, del Ramadan e di aggiornare la libreria con testi islamici come ha fatto scuola  Anjem Choudary nelle carceri inglesi: l’ex avvocato diventato imam e arrestato per istigazione al terrorismo islamico che dietro le sbarre inglesi ha moltiplicato i suoi discepoli.

Ovviamente la radicalizzazione non avviene solo in carcere, ma quest'ultimo resta il luogo meno controllato.  Una ricerca del King’s College di Londra, analizzando le biografie di 79 jihadisti europei – nati e cresciuti in Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Gran Bretagna e Paesi Bassi – allo scopo di studiare il legame intercorrente tra incarcerazione e radicalizzazione, ha concluso come un terzo di loro fosse stato introdotto all’islam durante la permanenza in carcere. Secondo l’Ispi, l’islam sarebbe la fede praticata da più di un detenuto su cinque. Ma i dati a disposizione risalgono a prima dell’emergenza sanitaria da Covid-19. Da allora certe statistiche non sono state più toccate. Com’è possibile che dal 2018, per esempio, il ministero non abbia aggiornato i dati dei detenuti per terrorismo islamico, né per i sorvegliati in odore di radicalizzazione?