Colpo di scena in Siria: Aleppo nelle mani dei jihadisti
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In Siria la guerra si riaccende all'improvviso, dopo quattro anni di tregua. Dalla regione di Idlib, un esercito di jihadisti del gruppo Hayat Tahrir al-Sham marcia su Aleppo e incredibilmente conquista la città. Caos in tutta la regione mediorientale.
Il Medio Oriente è sempre più infuocato. Nonostante la fragile tregua tra Israele e Hezbollah e la guerra a Gaza prosegua con la stessa intensità degli inizi, in Siria tornano a farsi sentire le armi. I jihadisti di Hayat Tahrir al-Sham (Hts, Commissione per la liberazione della Siria), un’organizzazione salafita, vicina ad Al Qaeda e appoggiata dalla Turchia, sono usciti dalla loro roccaforte nella zona di Idlib, non lontana dal confine turco, diretti ad Aleppo. La città siriana è ora nelle loro mani. In soli tre giorni hanno occupato numerosi villaggi, una base militare e si sono impossessati di un consistente quantitativo di armi, munizioni e carri armati. Ma anche Damasco sta vivendo momenti terribili. Sembra che un tentativo di colpo di stato sia in corso. Il presidente Bashar Al Assad sarebbe a Mosca.
Con l’offensiva “Battaglia per scoraggiare l’aggressione”, improvvisa ma non imprevista, dopo anni di combattimenti e la tregua del 2020 voluta da Vladimir Putin, è iniziata l’occupazione di Aleppo. La guerra è ricominciata proprio dove si era interrotta. Immediata la reazione dell’esercito siriano. Aerei siriani e russi hanno colpito le zone vicine al confine con la Turchia, tentando di respingere l’offensiva. Nel corso di un’incursione aerea i russi hanno ucciso Abu Muhammad al Jolani, capo di Hayat Tahrir al Sham. Secondo alcune fonti, l’esercito siriano si sarebbe ritirato per riposizionare le truppe, rafforzare la difesa e preparare un contrattacco, ma molti soldati sono stati uccisi o feriti in violente battaglie con l’organizzazione terroristica. Gli scontri si sarebbero svolti nei governatorati di Aleppo e Idlib.
Che qualcosa dovesse accadere in Siria era prevedibile. Dopo la decapitazione dei vertici e delle milizie degli Hezbollah, le fazioni dell’opposizione siriana hanno pensato bene di approfittare della situazione per occupare il vuoto lasciato dalle milizie filoiraniane. Ma è anche un’occasione per testare la scontata risposta della Russia, stretto alleato della Siria, visto il suo impegno in Ucraina.
L’offensiva dei jihadisti è stata organizzata da oltre un mese ed ha provocato la morte di oltre trecento persone e 15mila sfollati. La loro avanzata, all’inizio, non ha incontrato nessuna resistenza, ma nelle campagne a ovest di Aleppo sono stati i libanesi di Hezbollah, gli iraniani delle forze Quds e gli afghani sciiti legati all’Iran a ingaggiare i primi combattimenti con i ribelli. I jihadisti avrebbero anche bloccato l’autostrada M5, la più importante via di comunicazione del Paese, che collega Aleppo a Damasco, aprendo un nuovo fronte nella parte orientale di Idlib e procedendo verso la città di Saraqib, occupata dalle forze russe e dalle truppe sostenute dall’Iran.
Dell’attacco imminente dei ribelli non c’era stata nessuna avvisaglia. Aleppo era tranquilla. Ma ora tutto è improvvisamente cambiato. I negozi hanno abbassato le saracinesche, i forni sono chiusi e iniziano le prime difficoltà. Nessuno prevedeva che la Siria tornasse ad infiammarsi e nessuno aveva fatto delle scorte. La gente è nel panico. Si è chiusa nelle proprie case per paura. Sembra che il tempo sia ritornato indietro di molti anni. Le suore di Madre Teresa che gestiscono un ospizio, nelle vicinanze dell’episcopato, con oltre sessanta ospiti sono molto preoccupate. «Se non riapriranno i negozi di generi alimentari le nostre scorte saranno sufficienti solo per pochi giorni», sottolinea una religiosa che chiede l’anonimato. Le comunità religiose cattoliche presenti ad Aleppo si sono subito mobilitate per aiutare la comunità cristiana. Nessuno di loro lascerà il Paese. «Staremo vicine al popolo siriano e lo aiuteremo», dice ancora la suora di Madre Teresa.
«Siamo fratelli, non abbiate paura», è il messaggio diffuso dai nuovi occupanti sui social e attraverso i megafoni sistemati sulle auto che giravano in lungo e in largo tutti i villaggi conquistati. Il loro, però, è un volto umano solo apparente. Infatti, le immagini che circolano sui social fanno vedere miliziani che uccidono, senza alcuna pietà, i soldati siriani fatti prigionieri durante l’avanzata. Il gruppo Hayat Tahrir al-Sham (Hts), nelle cui fila ci sono jihadisti giunti dal Caucaso, dall’Asia centrale e gli uiguri dello Xinjang (Cina), controlla la maggior parte della città di Aleppo, i centri governativi e le prigioni, compreso il comando generale della polizia e gli uffici del governatorato. I miliziani proseguono la loro marcia, senza trovare resistenza a sud, verso la città di Hama: qui le forze governative e quelle russe si sono ritirate da diverse strutture strategiche, tra cui l’aeroporto militare.
Nel frattempo, la diplomazia si è messa in movimento. Ieri, tra i ministri degli esteri della Turchia e della Russia, Hakan Fidan e Sergey Lavrov, c’è stato un colloquio telefonico interlocutorio, senza però che sia stata raggiunta alcuna intesa su come fermare le nuove ostilità. «La Siria continuerà a difendere la propria stabilità e integrità territoriale contro tutti i terroristi, ed è in grado, con l’aiuto dei suoi alleati e amici, di sconfiggerli ed eliminarli, indipendentemente dall’intensità dei loro attacchi terroristici»: è quanto si legge sul profilo X della presidenza di Damasco. Anche la Russia ha fatto sapere che invierà aiuti militari entro breve tempo.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, per la prima volta in questi ultimi tempi, ha convocato, venerdì scorso, il gabinetto di sicurezza per seguire da vicino quanto sta accadendo in Siria, paese che le forze israeliane hanno, in più di un’occasione, bombardato recentemente, comprese le città di Damasco e di Palmira. A Tel Aviv si pensa che siano stati i bombardamenti degli aerei israeliani e il rientro di gran parte dei combattenti di Hezbollah nel Paese dei Cedri, a favorire i progetti della Turchia e dei jihadisti sunniti contro l’«infedele alawita» Bashar Assad.
Va ricordato che il cessate il fuoco in Libano non era neppure iniziato, quando il primo ministro Netanyahu ha rivelato il suo progetto di destabilizzazione dell’intera regione: lo Stato ebraico intende concentrare i suoi sforzi bellici sull’Iran, ma lo scontro trascinerà necessariamente la Siria di Assad, paese, in cui Israele occupa dal 1967 le alture del Golan.
Bashar Assad è molto debole, l’Iran è in profonda crisi, gli Hezbollah sono costretti ad abbandonare le loro posizioni e Vladimir Putin è sempre più impegnato dall’offensiva in Ucraina. In questo contesto s’inserisce il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, che spesso è intervenuto sul destino dei palestinesi, ma senza fare nulla di concreto. Oggi, con questa nuova crisi in Siria, ha ulteriori possibilità per negoziare sia con Putin che con Assad, ma anche con gli americani e con Israele.
Tel Aviv, nel frattempo, approfitta della pseudo tregua per proseguire la sua distruzione nel Paese dei Cedri, con le truppe di terra e con l’aviazione. Gli hezbollah non si oppongono e i morti, per Israele, sono miliziani, anziché semplici civili.
A Gaza la carneficina continua. In una sola incursione aerea, sul campo profughi di Jabalia, nel nord della Striscia, sono state uccise quaranta persone, mentre lo scorso sabato, in una sola giornata, i morti sono stati oltre cento. Dal 7 ottobre dello scorso anno, i palestinesi uccisi dalle forze israeliane sono state 44.382 e i feriti 105.142.
La morte dei civili è considerata al pari di un inevitabile effetto collaterale, al punto che il ministro Itamar Ben-Gvir ha chiesto a Netanyahu di non fermare i bombardamenti, anzi di intensificarli. «Abbiamo una grande occasione di cancellare Hamas. Abbiamo una possibilità storica di ripristinare la deterrenza, rioccupare la Striscia di Gaza e incoraggiare l'emigrazione volontaria per costruire nuovi insediamenti. Questo è ciò che porterà la pace al sud».